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mercoledì 25 maggio 2016

Nell'educare, non dobbiamo avere paura dei sentimenti

NELL'EDUCARE, NON DOBBIAMO AVERE PAURA 
DEI SENTIMENTI

Una cosa è certissima: chi è freddo, insensibile, invernale, non può educare. Il cervello non basta, ci vuole cuore; la tecnica non è sufficiente, ci vuole pietà.
È vero che è la ragione che fa l'uomo, ma è il sentimento che lo guida. Lo psichiatra Eugenio Borgna racconta: “Una mia paziente rifiutava il cibo. Stava male. Riprese a mangiare quando trovò una rosa rossa accanto al piatto di riso”. È bastato un fiore per raddrizzare una situazione. È sempre così: l'attenzione e la tenerezza sono terapeutiche per natura loro.
Un medico esperto in etilismo lo conferma: “La maggioranza degli alcolizzati si sono abbandonati al vizio del bere per superare un turbamento infantile, per cancellare una ferita che si è aperta e non si è più rinchiusa. Si attaccano al collo della bottiglia perché non hanno potuto attaccarsi al collo della mamma!”.

Cinque proposte concrete
1. Coccoliamo!
Coccolare non è viziare. Coccolare è baciare l'anima. Lo sostengono tutti: cinque secondi di carezze comunicano più amore che cinque minuti di parole. D'altronde non può essere che così: le coccole sono il più ricco nutrimento affettivo che abbiamo a disposizione. Così ricco che la psicologa Kathleen Keating è arrivata a stilare questa legge: “Quattro abbracci al giorno per la sopravvivenza. Otto abbracci al giorno per sopravvivere. Dodici abbracci al giorno per crescere”.

2. Proteggiamo la sera
La sera è il momento più adatto per dare libero sfogo alle nostre emozioni. Di sera è più facile avere pensieri miti, pensieri di pace. C'è nell'aria voglia di calore, di affetto, di stringersi insieme, di commuoversi, appunto. La sera abolisce le distanze, fa dimenticare le impazienze e le sgridate della giornata.
Le parole che i genitori dicono ai figli, prima che scivolino nel sonno, aggiustano i cuori.

3. Facciamo carezze al cervello del figlio
Anche questa è una magnifica via per mostrargli la nostra tenerezza. Carezze al cervello sono le parole positive, incoraggianti, balsamiche. “Ci piaci come sei!”. “Siamo orgogliosi di te!”. “Abbiamo un figlio meraviglioso!”... Queste son parole di seta che riscaldano anche quando i termosifoni sono spenti.

4. Controlliamo il tono della voce
Il 'tono' - lo sappiamo tutti - non è il 'volume', non è il 'timbro'. Il 'volume' è legato alla capacità polmonare, il 'timbro' dipende dal corredo genetico proprio di ciascuno. Il 'tono' è il calore e il colore che immettiamo nelle parole che diciamo. Ebbene, il tono può comunicare mille sentimenti.
Lo sanno benissimo le mamme che, per questo, parlano al loro bambino, fin dai primissimi giorni, con voce dolce, affettuosa, tenera, lieve, calda, accogliente, rassicurante.

5. Coinvolgiamo i figli
I nostri ragazzi troppe volte sono aridi perché non conoscono la vita nei suoi vari momenti: sereni e nuvolosi, gioiosi e dolorosi. Ecco perché coinvolgere il figlio in tutte le situazioni dell'esistenza umana è una delle strategie più sicure per innalzare il livello emotivo in famiglia.

In concreto:
• Non vergogniamoci a farci vedere emozionati: ridiamo e rattristiamoci tranquillamente senza temere il giudizio degli altri.
• Perché non portare il figlio in ospedale a vedere la nonna che sta male?
• Perché non mostrarci anche piangere?
Chi piange dimostra di scendere dal piedistallo, dimostra d'avere un cuore ben fatto. Le lacrime sono le emozioni in bella vista.
Cinque semplici consigli che portano in casa quegli intensi sentimenti senza i quali non si vive da uomini, ma da orsi.

RIDERE E PIANGERE
“A ridere c'è il pericolo di apparire sciocchi. E con ciò? Dico spesso che la gente mi considera un po' matto. Ma io mi diverto un mondo, mentre le persone sane di mente muoiono di noia.
A piangere c'è il pericolo di apparire sentimentali.
Io non ho paura di piangere: piango sempre. Piango per la gioia, piango per la disperazione. Piango quando vedo gli altri felici. Piango quando vedo due che si amano. Non mi importa se appaio sentimentale. Mi pulisce gli occhi!
A mostrare i vostri sentimenti c'è il pericolo di mostrare la vostra umanità. Bene, sono lietissimo di rivelare la mia umanità! Ci sono cose ben peggiori della mia umanità!”
(Leo Buscaglia, scrittore e pedagogista italo americano)

Autore: Pino Pellegrino
Fonte: Bollettino Salesiano marzo 2016
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mercoledì 18 maggio 2016

La resilienza nei bambini

LA RESILIENZA NEI BAMBINI

Quest’estate ho letto un libro che mi ha aperto un mondo, quello della resilienza e di come favorirla nei bambini. Il libro è in inglese e ancora non esiste la traduzione in italiano; l’autore è Kenneth Ginsburg, pediatra specializzato all’ospedale per bambini di Philadelphia e professore universitario “pluri titolato” e soprattutto molto attivo nel sostegno a bambini e ragazzi, con l’obiettivo di aiutarli a diventare più resilienti.
Il libro è straordinario: definisce i fattori di cui si nutre la resilienza, racconta esperienze vissute e dà ai genitori e agli educatori consigli molto pratici.
Che cos’è la resilienza? Ginsburg la descrive così:
La resilienza è la capacità di risollevarsi da circostanze difficili, la dote che ci permette di esistere in questo mondo non perfetto, mentre ci muoviamo nel futuro con ottimismo e fiducia.
Il sogno di ogni genitore è crescere figli che conducono vite felici e affascinanti, senza sofferenza, preoccupazioni, problemi emotivi.
Ci piacerebbe vivere in un mondo idilliaco, in cui i bambini non devono preoccuparsi della pressione dei pari, del bullismo, dei conflitti dei genitori, del divorzio, di estranei pericolosi, di malattia o morte, povertà, crimini, terrorismo e guerra. Fantastichiamo di poterli salvaguardare da ogni possibile perdita, paura o pericolo.
Vorremmo avvolgerli in un morbido piumino e isolarli da qualsiasi sfortuna o dispiacere.
Ma anche se potessimo, sarebbe davvero un bene per loro?
Se potessimo immunizzare i bambini da tutte le delusioni e dallo stress, avrebbero mai la possibilità di fare esperienza della soddisfazione di affrontare una sfida, di riprendersi e scoprire che sono in grado di affrontare situazioni difficili?

Se avessimo una bacchetta magica per isolare i bambini dal dolore intorno a loro, non produrremmo individui freddi e incapaci di empatia, di provare ed esprimere amore, compassione, o il desiderio di aiutare gli altri? Sarebbero preparati a rendere il mondo un posto migliore?
Nessun genitore augura a suo figlio le avversità, ma dobbiamo essere realistici e aspettarci di avere dei problemi.
Non possiamo crescere bambini totalmente invulnerabili. Il nostro scopo deve essere quello di crescere bambini che sanno gestire gli alti e bassi che il mondo ha in serbo per loro.
Dobbiamo aiutarli a trovare la felicità anche quando le cose non vanno come vorrebbero.
Se vogliamo che nostri bambini vivano il mondo il più pienamente possibile, sfortunatamente con tutto il suo dolore, e grazie al cielo con tutta la sua gioia, il nostro obiettivo sarà la resilienza.
La resilienza viene comunemente definita come l’abilità di riprendersi dalle difficoltà, la qualità di rialzarsi.
La resilienza è una mentalità. Le persone resilienti vedono le sfide come opportunità.
Non cercano problemi, ma capiscono che alla fine i problemi li rafforzeranno. Piuttosto che cominciare dubitare di se stessi, a fare pensieri catastrofici, a sentirsi vittime e a chiedersi: perché a me?, loro cercano soluzioni.
Le persone resilienti hanno più successo nella vita, perché cercano di superare i propri limiti e imparano dai loro errori.
La resilienza potrebbe essere un fattore essenziale nel determinare non solo chi si adatterà alle circostanze, ma chi ne uscirà vincitore.
In termini di resilienza, alcuni bambini sembrano naturalmente dotati dell’abilità di riprendersi dagli ostacoli, mentre altri hanno bisogno di un supporto in più. Tutti i bambini, tuttavia, possono diventare più resilienti.
Ora ti chiedo: per caso ti senti stressato??
Siamo eternamente di corsa.
I bambini sono oberati di attività scolastiche ed extra curricolari.
Gli amici a volte li spingono a fare cose rischiose.
I genitori e gli insegnanti li spingono ad avere voti più alti.
Gli allenatori chiedono performance migliori.
I media bombardano i giovani con messaggi che dicono che non sono magri abbastanza, intelligenti abbastanza o attraenti abbastanza.
In questa atmosfera così pressante,
I bambini hanno bisogno di potersi immergere nelle loro forze.
Hanno bisogno di acquisire specifiche abilità per fronteggiare e riprendersi dalle avversità, e per essere preparati per le sfide future.
Non possono farlo completamente da soli, però. I genitori devono assumere la guida nel costruire la resilienza, ma l’abilità dei bambini di affrontare gli ostacoli è profondamente influenzata anche dalla comunità di adulti che li circondano.
E di che cosa hanno bisogno i bambini prima di tutto per sviluppare la resilienza? Di avere un forte senso di competenza personale.
La competenza è l’abilità o il know how necessario per gestire le situazioni in modo efficace.
Non è un vaga sensazione che mi fa dire “Posso farlo”. La competenza si acquisisce attraverso l’esperienza concreta. Per questo, i bambini non possono diventare competenti senza prima sviluppare un insieme di abilità che permette loro di fidarsi del proprio giudizio, di fare scelte responsabili e di affrontare situazioni difficili.
Pensando alla competenza di tuo figlio e a come puoi rafforzarla, Ginsburg ci consiglia di farci queste domande:
1. Aiuto mio figlio a concentrarsi sui suoi punti di forza e a sfruttarli?
2. Gli faccio notare quello che sa fare bene o mi focalizzo solo sui suoi errori?
3. Quando devo fargli notare uno sbaglio, sono chiaro e specifico o gli comunico che secondo me non ne fa mai una giusta?
4. Lo sto aiutando a costruire le abilità sociali e di controllo dello stress necessarie per renderlo competente nel mondo reale?
5. Gli parlo in un modo che lo stimola a prendere decisioni personali o mino il suo senso di competenza comunicandogli messaggi che non riesce a comprendere? In altre parole, gli faccio la paternale o favorisco la sua capacità di pensiero?
6. Gli permetto di commettere errori – in sicurezza – così che abbia modo di aggiustare il tiro, o cerco di proteggerlo da qualunque caduta o delusione?
7. Mentre cerco di proteggerlo, gli comunico che “Non penso tu possa farcela da solo?”
8. Se ho più di un figlio, riconosco le competenze di ognuno senza fare paragoni tra i fratelli?
Tu come rispondi a queste domande?
Fonte: www.mammeimperfette.com

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mercoledì 11 maggio 2016

Impariamo a guardare i nostri bambini

IMPARIAMO A GUARDARE I NOSTRI BAMBINI

Ecco la prima mossa che i genitori patentati conoscono bene: i figli vanno visti, vanno guardati! Non c'è figlio che non ami essere oggetto di attenzione da parte di qualcuno. “Guarda, mamma, che bel disegno ho fatto!”. “Guarda, papà, come vado bene in bicicletta!”. “Guarda, nonna, la maglietta nuova!”.
Persino gli adolescenti, che appaiono così sicuri e indipendenti, amano essere guardati. Che cosa sono i tatuaggi, il piercing e le tante cure del look se non un'invocazione: “Guardateci!”. Insomma, non c'è dubbio alcuno: i figli reclamano il nostro contatto visivo, i nostri occhi. Il contatto visivo soddisfa i loro bisogni emotivi più di quanto non li soddisfino (si noti) tutti i contatti digitali del mondo messi insieme. Guardare il figlio è come dirgli: “Tu esisti per me. Tu sei entrato nei miei pensieri, nel mio mondo affettivo”.
Non per nulla nei campi di concentramento tedeschi era severamente proibito ai prigionieri fissare negli occhi i loro carcerieri per timore che potessero essere inteneriti. Potenza dello sguardo visivo che, oltre a soddisfare i bisogni emotivi del figlio, come abbiamo appena detto, gli dà anche valore. Essere guardato, infatti, significa essere considerato. Non essere guardato significa non essere considerato, non essere nessuno. In una parola sola: lo sguardo è un potente fattore di autostima.
Dunque, una cosa è certa: se guardassimo i figli almeno quanto guardiamo il bagno e l'automobile, avremmo meno ragazzi tristi, meno ragazzi infelici, meno ragazzi ammalati di scontentezza.
A questo punto è chiaro che imparare a guardare i figli non è un optional, ma un preciso impegno.
Imparare a guardare perché non tutti gli sguardi sono pedagogicamente accettabili. Vi sono sguardi sbagliati e sguardi buoni.

Sguardi sbagliati
Un tipo di sguardo sbagliato è lo sguardo poliziesco che controlla in continuazione il figlio, non lo lascia libero un momento, lo tampina tutto il giorno. Lo sguardo poliziesco potrà fare un figlio disciplinato, ma non un educato; come lo sguardo dei carabinieri che controlla l'ordine, ma non forma uomini. Ai genitori che tendono ad avere lo sguardo poliziesco è bene ricordare due proverbi. Il primo: “Mai catena ha fatto buon cane!”. Il secondo: “Briglia sciolta un po' alla volta”.
Un secondo tipo di sguardo sbagliato è lo sguardo minaccioso. Vi sono genitori che sfruttano lo sguardo per dare ordini, rimproverare, criticare: “Guardami negli occhi!”, urlano, fissando il figlio con lo sguardo fulminante. È vero che i figli vanno rimproverati, ma lo sguardo truce non ci pare la via migliore per la sgridata. Papà e mamma dovrebbero essere ricordati dai figli con altri occhi, non con quelli severi e fulminanti.
Una confidenza: chi scrive ricorda con gioia gli occhi profondi e dolci della mamma che gli intercettavano il cuore e lo addolcivano.
Terzo tipo di sguardo sbagliato è lo sguardo indifferente. Tra tutti questo è, di certo, il peggiore. L'indifferenza è la bestia nera di ogni ragazzo (e non solo): gli gela l'anima, gli fa perdere la voglia d'essere al mondo. Non è forse vero che è piacevole vivere solo se si è accolti nel mondo affettivo di qualcuno?
Per favore, dunque, liberiamoci dagli sguardi sbagliati e passiamo a quelli buoni, tipici della misericordia, i soli pedagogicamente accettabili.

Sguardi buoni
Il primo tipo di sguardo buono è lo sguardo generoso che vede nel figlio ciò che nessuno vede. Lo scrittore francese François Mauriac (1885-1970) ha avuto una felicissima intuizione quando ha detto che: “Amare qualcuno significa essere l'unico a vedere un miracolo che per tutti gli altri è invisibile”. Ebbene, in ogni bambino vi è un miracolo nascosto. Di una cosa siamo convinti al 100%: se incominciassimo a vedere ciò che nostro figlio ha, non avremmo più tempo di pensare a quello che non ha. Esempio tipico di sguardo generoso è quello dei bambini che trasformano in sole il punto giallo del loro disegno.
Un secondo tipo di sguardo buono è quello che non si limita a vedere, ma arriva a guardare. Vi sono persone che vedono, ma non guardano. Gli animali vedono, ma non guardano.
Vedere è spontaneo. Guardare è una conquista. Vedere una persona è prendere semplicemente atto della sua presenza, guardarla è trasferirsi in essa, è cogliere il suo stato d'animo, le sue vibrazioni interiori.
Il figlio sente se è solamente visto o se è guardato; sente se si è lì per lui o se si è lì per l'amica con la quale parliamo; sente se si è lì per lui o per il bucato che stiamo stirando.
È vero che il figlio non deve monopolizzare tutta la nostra attenzione durante la giornata (sarebbe fortemente diseducativo: porlo sempre al centro dell'attenzione è preparare un piccolo despota), però riservargli, di tanto in tanto, un congruo spazio di considerazione totale è dargli l'indispensabile perché possa ringraziare d'esser nato!
Un terzo tipo di sguardo buono è quello sempre nuovo. Il figlio cresce e cambia: dobbiamo rinnovare anche il nostro modo di guardarlo. Perché ostinarci a vedere sempre e solo la piccola pianta e non il meraviglioso albero che sale? Perché non adattarci alla sua crescita?
Ad un certo punto dobbiamo cambiare gli occhiali ed accorgerci che il figlio non è più un bambino, ma un fanciullo, un adolescente e trarne le conseguenze nel nostro modo di parlargli e di trattarlo.

Autore: Pino Pellegrino
Fonte: B.S. febbraio 2016

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mercoledì 4 maggio 2016

La buona educazione in famiglia: la tenerezza

LA BUONA EDUCAZIONE IN FAMIGLIA: 
LA TENEREZZA
La tenerezza non è affatto qualcosa di molle e appiccicoso: non è dolcezza svenevole. 

Implica tutti gli altri linguaggi esistenti oltre quelli verbali: il linguaggio dello sguardo, del tatto, dell'odore, della vicinanza fisica, respiro, vibrazione. 
È tutti i “linguaggi dell'attenzione”: ascolto, sorriso, reciprocità, crescita insieme.


La tenerezza è come l'ossigeno
L'uomo ha due specie di esigenze: materiali e spirituali. Le esigenze materiali sono le più facili da soddisfare: cibo, riparo dalle intemperie, vestiti, ecc. Le esigenze spirituali ed emotive sono altrettanto importanti. Se non vengono soddisfatte, possono produrre esiti letali al pari della fame, della mancanza di ricovero, dell'impossibilità di placare la sete.
«Oggigiorno» scrive Leo Buscaglia «ciascuno di noi è troppo indaffarato per indugiare ad ascoltare i suoi interlocutori, per fare mente locale e porger l'orecchio alle istanze altrui, quand'anche si tratti dei suoi familiari. È quella che io definisco la “sindrome dell'uomo invisibile”. Una persona ci è davanti tutti i giorni, a tavola, in salotto, a letto. Ne avvertiamo la presenza fisica, eppure non la vediamo. Ci rifiutiamo, si direbbe, di guardarla». La tenerezza è come l'ossigeno. È presente ovunque allo stato di germe, di fiore e di sole in ognuno di noi. È assolutamente necessaria per vivere. Può nascere in occasione di ogni incontro, in ogni tipo di relazione. Ricevere tenerezza è sentirsi riconosciuto e accettato come un essere prezioso, come un essere eccezionale. Ho visto il corpo di una signora molto anziana raddrizzarsi, divenire più leggero, ignorare tanti suoi reumatismi e ridere di contentezza, quando il figlio grande che l'aveva presa fra le braccia per sollevarla fino al ripiano più alto della credenza ove c'era la marmellata, la poggiò a terra mentre stringeva fra le mani un barattolo di mirtilli dell'anno precedente.

Soprattutto la tenerezza è qualcosa di assolutamente gratuito
Si vive al di fuori di ogni costrizione, non s'inscrive in un rapporto di potere perché è anzitutto abbandono e offerta. La tenerezza è tutto ciò che sarebbe potuto sorgere nell'ottavo giorno della creazione se solo... l'umanità avesse fatto ancora un piccolo sforzo.
Ogni rapporto umano è una sfida. Milioni di uomini e donne si struggono per un amore profondo e non lo trovano. La maggior parte di questi prova un senso di isolamento interiore. Perché, si chiedono, si sentono soli? Perché la vecchia ansia persiste? Le braccia di una madre, la mano calda di un amico possono dare il coraggio necessario a rendere più tollerabile la coscienza della solitudine.

Dinamiche di tenerezza
• Ricevere l'attenzione dell'amore
La stranezza della nostra epoca sta nel fatto che la maggioranza degli uomini dedica quasi tutto il proprio tempo alle necessità materiali (fino ad affogare nel “troppo” di tutto), mentre dimentica le necessità spirituali ed emotive (salvo poi ricorrere a sistemi di sollievo artificiali o chimici). L'uomo necessita di essere veduto, ascoltato, apprezzato, fatto oggetto di tenerezza, sessualmente appagato. L'amore avverte e riconosce queste necessità. La tenerezza è presente ovunque allo stato di seme e di sole in ognuno di noi. Ricevere tenerezza è sentirsi riconosciuto e accettato come un essere prezioso, eccezionale.
• Imparare a ricevere
II primo passo è imparare a ricevere. Accogliere con amore significa rinunciare a certe caratteristiche distruttive come il bisogno di avere sempre ragione; voler essere primi in tutto; sentire il bisogno di possedere e di manipolare gli altri. Quando si prende in esame il proprio comportamento sarebbe bene chiedersi: «Se abitassi con me, vorrei starmi vicino?» Accogliere significa modificare il proprio comportamento, in modo da diventare veramente “amabili”. La tenerezza ha bisogno di tempo e di spazio.
• Inventare nuove forme di relazione
Una giovane donna sola raccontava che, una sera di primavera, era andata a fare una passeggiata in città, poi era entrata in un bar e “contrariamente alle mie abitudini, ho chiesto di potermi sedere ad un tavolo già occupato da qualcuno, e quell'uomo mi ha detto: «Non è la vigilia di Natale, ma che regalo lei mi fa». Abbiamo parlato così più di cinque ore. Non ho mai più rivisto quell'uomo, ma che bella serata ho passato...”. È una singolare contraddizione della nostra epoca detta “della comunicazione” che a mancare sia la forma più semplice e più necessaria dei contatti umani: la conversazione.
Più gente ci circonda, più ci si sente soli. Rivolgere la parola a uno sconosciuto è cosa che non si fa... Anche un sorriso può essere giudicato con sospetto: «Ma che cosa vuole questo?».
• Esprimere tenerezza
Un uomo raccontò agli amici il dono straordinario di sua moglie, un lunedì mattina: «Mi aveva accompagnato fin sul marciapiede della stazione per salutarmi. E pochi istanti dopo la partenza del treno, la vidi sedersi di fronte a me. “Nella emozione, mi disse, avevo dimenticato di dirti quanto fossi importante per me, e avrò bisogno di molto tempo, fino alla prossima stazione... per dirtelo”». Una donna confessava, con tono intriso di sconforto: «Sono dieci anni che è morto mio padre. E sento ancora il rimorso per non avergli mai detto: “Ti voglio bene”».
Quando l'apicoltore raccoglie il miele dalle arnie delle sue api, si muove con cautela, quasi con delicatezza, per non suscitare l'ira delle api che potrebbero ridurlo a mal partito. Non tira calci all'alveare, perché invece del miele rimedierebbe dolorose punture. Ma quanta gente invece affronta le sue giornate “tirando calci all'alveare, con critiche, condanne, giudizi affrettati. Tenerezza è ricordarsi delle feste, dei compleanni e degli onomastici. Tenerezza è scambiarsi regali.
• Tenerezza è responsabilità
Oggi anche la tenerezza è inquinata: molti la intendono come mezzo di seduzione per possedere l'altro, per “conquistarlo”. La tenerezza ama i frutti maturi, non quelli acerbi: ha il senso dell'attesa. Di questo la tenerezza non ha mai paura. Perché, anche se può sembrare un paradosso, la gioia della tenerezza nasce sempre e solo nel sacrificio.

LA TENEREZZA È UNA MADRE
Lui mi diceva che ero carina.
Mia madre mi diceva che puzzavo di roba chimica.
Lui mi diceva “Fuggiremo insieme”.
Mia madre mi diceva “Pulisci la tua stanza”.
Lui mi diceva “Sei la mia amica per sempre”.
Mia madre mi diceva “Lascia libero il telefono”.
Poi lui improvvisamente scomparve.
E fu allora che mia madre, col suo odore di latte caldo, mi disse che ero bella.

Autori: Ferrero B. – Peiretti A.
Fonte: B.S. aprile 2016


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