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mercoledì 24 febbraio 2016

La sindrome del burnout

LA SINDROME DEL BURNOUT

Tra le forme di stress che possono derivare dal lavoro, una peculiare tipologia è quella che può essere riscontrata nella cosiddetta “sindrome del burnout” che rappresenta una vera e propria forma di esaurimento o logorio derivante dalla natura di alcune mansioni professionali.
Più precisamente si tratta di una esperienza soggettiva di cattivo rapporto con il lavoro, che viene vissuta generalmente in una fase successiva ad uno stato di tradizionale stress lavorativo e con una forma grave che ha delle sue caratteristiche specifiche e delle conseguenze negative in termini di salute, di produttività e di soddisfazione lavorativa.
La traduzione italiana della parola “burnout”, che comunemente avviene con il termine “bruciato” (o anche “scoppiato” o “andato in cortocircuito”), permette di descrivere parte delle sensazioni vissute da chi sperimenta lo stato di questa sintomatologia.
È utile anche sapere che questo termine anglosassone viene adottato comunemente per designare quelle persone che fanno un consumo abituale di droghe e da questo ambito è stato trasportato nel contesto del disagio manifestato da chi è in uno stato di burnout e mostra di essere deteriorato e svuotato dal “lavoro con le persone” sperimentando uno stato simile, per certi aspetti, allo stato di vuoto emotivo che viene descritto da alcuni tossicodipendenti o ex tossicomani.
Nonostante ciò va precisato che lo stato di burnout non è necessariamente collegato ad una “dipendenza dal lavoro” né è un esito certo di tutte le forme di “stress da lavoro”.

Uno sguardo quotidiano sul disagio
La “sindrome del burnout” è una tipologia specifica di disagio psicofisico connesso al lavoro che interessa, in varia misura, diversi operatori e professionisti che sono impegnati quotidianamente e ripetutamente in attività che implicano le relazioni interpersonali.
Tale problematica è stata descritta inizialmente da H. Freudenberger e da C. Maslach che portarono avanti le prime osservazioni su tale fenomeno dopo il 1970 all’interno di un reparto di igiene mentale in cui avevano notato su alcuni operatori dei sintomi caratteristici di questo problema.
Come sottolineano i risultati di alcune osservazioni sull’incidenza del fenomeno su mestieri differenti, il burnout colpisce in misura prevalente coloro che svolgono le cosiddette professioni d’aiuto o “helping professions” ma anche coloro che pur, avendo obiettivi lavorativi diversi dall’assistenza, entrano continuamente in contatto con persone che vivono stati di disagio o sofferenza.
Di conseguenza questo problema è stato riscontrato in modo predominante in coloro che operano in ambiti sociali e sanitari come medici, psicologi, assistenti sociali, counselors, esperti di orientamento al lavoro, fisioterapeuti, operatori dell’assistenza sociale e sanitaria, infermieri, guide spirituali, missionari e operatori del volontariato.
A partire dai primi anni in cui il fenomeno è stato studiato, esso è stato riscontrato anche in tutte quei mestieri legati alla gestione quotidiana dei problemi delle persone in difficoltà, a partire dai poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco, fino ai consulenti fiscali, avvocati, nonché in quelle tipologie di professioni educative (es. insegnanti) che generano un contatto, spesso con un coinvolgimento emotivo profondo, con i disagi degli utenti con cui lavorano e di cui guidano la crescita personale.

Secondo i risultati delle indagini di alcuni studiosi la chiave della genesi del burnout è da rintracciarsi in questo contatto frequente con le emozioni dolorose degli altri, una condizione che stressa emotivamente a causa della stessa natura umana e della capacità di sperimentare l’empatia che non sempre viene gestita in modo da saper mantenere un giusto distacco emozionale pur comprendendo i problemi dell’altro.
Da questa vicinanza emozionale eccessiva che si viene a creare per diverse ragioni che possono attenere ad elementi di comunanza con la propria storia personale, ma anche al carico eccessivo di lavoro o ad alcune abitudini psicologiche di gestione emotiva, si può superare la soglia di tolleranza del burnout e finire, in modo più o meno consapevole, per “vivere” il peso delle problematiche delle persone creando una confusione emotiva interiore tra se stessi e l’altro che può essere vissuta inizialmente anche semplicemente come una stanchezza e sensazione di aver lottato con un problema.

Le tre facce del burnout
Il disagio da burnout comprende tre vissuti che rappresentano le dimensioni fondamentali del problema da tenere in considerazione nelle valutazioni del problema.

La prima caratteristica è quella dell’esaurimento emotivo che è vissuto come un inaridimento interiore e come la sensazione di non avere più qualcosa da dare ai propri utenti e che viene esperito spesso come impotenza, tensione, impazienza, nervosismo o anche depressione e demotivazione rispetto a tutte le attività quotidiane precedentemente soddisfacenti.
Una delle affermazioni interiori o esteriori tipiche di chi prova questo stato è “questo lavoro mi scarica interiormente”.

La seconda dimensione tipica del problema è chiamata depersonalizzazione e corrisponde con una tendenza a reagire in modo freddo o persino cinico-aggressivo nei confronti delle persone che sono destinatarie della propria attività lavorativa, una risposta che spesso aumenta paradossalmente di fronte al tentativo di far sentire il proprio malessere da parte dell’utente.
Questo vissuto viene generalizzato attraverso uno stato mentale di distacco estremo rispetto al disagio altrui che si manifesta con uno stato interiore di disinteresse verso gli altri o talvolta persino di colpevolizzazione.

La terza particolarità del burnout è la presenza di una ridotta realizzazione lavorativa che determina una sfiducia nelle proprie capacità e competenze ma anche una diminuzione delle ambizioni di successo che spesso trasforma il lavoro in una attività condotta esclusivamente per mantenere la propria remunerazione. A causa di questa nuova prospettiva rispetto a se stessi dal punto di vista professionale è frequente anche la tendenza a giudicare in modo negativo il proprio lavoro passato con effetti retroattivi, annullando così mentalmente il valore delle soddisfazioni precedenti e generando in tal modo un ulteriore senso di insoddisfazione, rabbia ed esaurimento emozionale.

È molto importante sottolineare che lo stato di burnout è una condizione che è presente naturalmente nelle tipologie professionali “a rischio” precedentemente nominate e che, per tale ragione, ciò che è importante è che esso sia considerato come uno stato la cui intensità è da tenere sotto controllo per il benessere del lavoratore e degli utenti, nonché per l’immagine e per il rendimento delle strutture erogatrici (es. aziende, amministrazioni, ecc.), dal momento che su questi ultimi incidono la soddisfazione del lavoratore e dei beneficiari.

Inoltre va considerato che molti casi gravi di burnout possono determinare una sensazione di inutilità personale che ha già dimostrato di poter condurre a errori professionali, a comportamenti rischiosi per se e per gli altri, a conflitti aperti e anche a condotte di autolesionismo fatali.

Il lento cammino verso il burnout cronico
La storia di persone che raggiungono l’apice della sindrome mostra che esistono delle strade tipiche che vengono percorse fino ad arrivare al problema cronico.

Generalmente la prima tappa che viene rintracciata è la cosiddetta fase di preparazione che riguarda il periodo della scelta del proprio lavoro e dell’investimento affettivo dello stesso. Quando una persona sceglie un lavoro iniziando con una eccessiva esaltazione e un entusiasmo idealistico, con la convinzione di poter cambiare gli altri o se stessi in modo radicale si pone in una condizione potenziale di vulnerabilità maggiore al burnout.
Per tale ragione la formazione degli operatori dell’aiuto dovrebbe comportare sempre dei momenti di potenziamento delle capacità di gestione delle emozioni e degli obiettivi professionali e, in particolare, la formazione iniziale dovrebbe aiutare a sviluppare una concezione del cambiamento come un processo che si muove per piccoli passi, in modo che si impari ad apprezzare ogni sfumatura di miglioramento.

Nel cammino verso la fase acuta del burnout si passa velocemente dalla prima fase alla fase della svalutazione che è anche definita “stagnazione” e che deriva dalle richieste del quotidiano carico di lavoro, nonché dalle naturali delusioni rispetto all’immagine lavorativa idealizzata in precedenza.
Quando questa fase è naturalmente legata al carico di stress derivante dal lavoro in alcune strutture che gestiscono attività emotivamente pressanti, il burnout andrebbe trattato come una tossina che riempie l’organismo e dal quale ci si può liberare con un allontanamento dalla fonte dell’intossicazione. In alcuni paesi, a tal fine, è disposta la libertà di alcuni direttori e capigruppo di poter “mettere a riposo” il personale che è stato costretto a periodi o esperienze eccessive di stress emozionale o che mostrano segni di stress e di burnout tale da richiedere la sospensione temporanea dell’attività in via precauzionale.

Questa tappa viene seguita con il tempo da una fase di frustrazione che nasce dalla percezione, reale o immaginata, di non essere capace, utile o di essere svalutato rispetto alle proprie potenzialità, che si traduce talvolta nella sensazione di essere nel posto o nel ruolo sbagliato.

Nella fase cronica del burnout si passa allo stato di apatia che sostituisce ogni forma precedente di empatia e di motivazione, con la sensazione stabile di non poter essere d’aiuto a nessuno, talvolta accompagnata anche dal desiderio di cambiare attività o dalla fretta di raggiungere un’età pensionabile.

I fattori che avvicinano allo stato cronico

I numerosi studi compiuti sulle persone che hanno raggiunto stati di burnout grave hanno reso possibile l’analisi dei cosiddetti “fattori di rischio” che favoriscono l’insorgenza del problema.
Essi sono in parte legati a caratteristiche individuali e in parte connessi a fattori ambientali.

Dal punto di vista individuale il burnout tende a svilupparsi prevalentemente in:
- fasce demografiche a rischio che sono quelle di persone con età compresa tra 30 e 40 anni e non coniugate o non impegnate stabilmente in una relazione affettiva, che tendono a investire sul proprio lavoro in modo predominante o esclusivo;
- persone con alcune caratteristiche psicologiche che rendono più vulnerabili quali quelle che sono carenti di assertività e che tendono quindi ad essere passive o aggressive di fronte alle difficoltà, nonché quelle che tendono ad accettare difficilmente i cambiamenti, che li vivono in come incontrollabili o ancora quelli con impegni sociali ridotti al di là del lavoro;
- persone che “investono” sul lavoro eccessivamente (anche quelle con dipendenza dal lavoro) che lavorano intensamente o che passano ogni momento della propria settimana a lavorare o a pensare al lavoro e che hanno grandi aspettative di successo sia rispetto ai risultati legati al cambiamento degli utenti che rispetto a eventuali crescite professionali.

Dal punto di vista ambientale esistono dei fattori che predispongono maggiormente al problema, tra i quali rientrano:
- il settore lavorativo di appartenenza che comprende i mestieri che sono stati precedentemente indicati come “a rischio”;
- alcune caratteristiche del lavoro svolto tra cui rientrano il carico eccessivo di lavoro con le persone, la presenza di scadenze pressanti, le ambiguità di ruolo;
- le caratteristiche dell’organizzazione aziendale in cui si opera poiché si osserva che questo problema è più frequente e più intenso in quelle organizzazioni in cui si lavora con incertezza economiche, con contratti instabili e in cui sono poco valorizzate le proprie capacità e si lascia poco spazio all’autonomia nella gestione delle attività quotidiane. In tal senso si tratta di luoghi di lavoro in cui esiste anche un alto rischio di mobbing e di stress lavorativo più in generale.
Come per altre problematiche lavorative è particolarmente importante la conoscenza del problema da parte dei lavoratori e dei datori di lavoro, nonché la possibilità di monitorare i livelli di questa tipologia di stress, sia con opportuni strumenti somministrati periodicamente dai professionisti esperti in questo tipo di valutazioni, che attraverso la costante osservazione delle ricadute del problema sul benessere emozionale, sulle capacità di mantenere l’attenzione nelle proprie mansioni, sulla serenità nel rapporto con l’utenza e sulla qualità del servizio offerto.

Autrice: Dott.ssa Monica Monaco
Fonte: www.benessere.com

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mercoledì 17 febbraio 2016

Le ferite dell'infanzia che persistono da adulti

LE FERITE DELL'INFANZIA CHE 
PERSISTONO DA ADULTI

I problemi che abbiamo vissuto durante l’infanzia predicono come sarà la qualità della nostra vita da adulti. Questi, inoltre, possono influire sul modo di agire che un domani i nostri figli adotteranno e su come noi affronteremo le avversità.
In qualche modo, a partire da queste ferite emotive o esperienze dolorose dell’infanzia, plasmeremo una parte della nostra personalità. Vediamo di seguito quali sono le cinque ferite emotive secondo Lisa Bourbeau….



1- La paura dell’abbandono



La solitudine è il peggior nemico di chi ha vissuto l’abbandono durante l’infanzia. Ci sarà una costante attenzione alla carenza, che porterà chi ne ha sofferto ad abbandonare il suo partner o i suoi progetti quando ancora è presto, per paura di essere loro stessi quelli che verranno abbandonati. È una sorta di “ti lascio prima che sia tu a lasciare me”, “nessuno mi appoggia, non posso sopportare tutto questo”, “se vai via, non tornare”…
Le persone che hanno vissuto esperienze di abbandono durante l’infanzia, dovranno lavorare sulla loro paura della solitudine, sul timore di essere rifiutati e sulle barriere invisibili del contatto fisico.
Le ferite causate dall’abbandono non sono facili da curare. Sarete voi stessi a prendere coscienza di quando le ferite inizieranno a rimarginarsi e quando il timore dei momenti di solitudine sparirà e sarà sostituito da un dialogo interiore positivo e speranzoso. 

2- La paura del rifiuto 


Essendo una ferita molto profonda, implica il rifiuto interiore. Con interiore ci riferiamo a ciò che abbiamo vissuto, ai nostri pensieri e ai nostri sentimenti. Quando appare, può influire su molteplici fattori, come il rifiuto dei genitori, della famiglia o di se stessi. Genera sentimenti di rifiuto, pensieri negativi, come quello di non essere desiderati e porta alla svalutazione di se stessi. La persona che soffre questa dolorosa esperienza sente di non meritare l’affetto né la comprensione di nessuno e si isola nel suo vuoto interiore per paura di essere rifiutato. È probabile che, se avete sofferto di questi problemi durante l’infanzia, sarete persone “sfuggenti”. Per questo motivo, è indispensabile lavorare sul proprio timore, sulle proprie paure interiori e sulle situazioni che generano panico. Se si tratta del vostro caso, pensate a voi stessi, rischiate e prendete decisioni per voi stessi. Vi disturberà sempre meno il fatto che la gente si allontani e non la prenderete sul personale se, a volte, si dimenticheranno di voi. 

3- L’umiliazione 


Questa ferita si genera quando in diversi momenti sentiamo che gli altri disapprovano ciò che facciamo e ci criticano. Potreste anche generare questo problema nei vostri figli dicendo loro che sono maleducati, pesanti e cattivi, così come se esponete i loro problemi davanti agli altri: questo distrugge l’autostima infantile.
In questo modo, il tipo di personalità che si genera con frequenza è una personalità dipendente. Potreste aver assunto un atteggiamento da “tiranni” ed egoisti come meccanismo di difesa, e potreste arrivare ad umiliare gli altri come scudo per proteggere voi stessi. Se avete vissuto queste esperienze, dovrete lavorare sulla vostra indipendenza, sulla vostra libertà, sulla comprensione delle vostre necessità e dei vostri timori timori, così come sulle vostre priorità. 

4- Il tradimento e la paura di fidarsi 


Questi sentimenti sorgono quando un bambino si è sentito tradito, specialmente da uno dei suoi genitori, che non ha rispettato le promesse fatte. Questo fa sì che la sfiducia che deriva da questo problema, possa trasformarsi in invidia e in altri sentimenti negativi, come la sensazione di non meritare le cose promesse o ciò che gli altri hanno.
Aver sofferto di questi problemi durante l’infanzia crea persone sospettose e che vogliono sempre tenersi tutto stretto. Se durante la vostra infanzia avete sofferto una situazione simile, è probabile che avvertiate la necessità di esercitare un certo controllo sugli altri, che si giustifica solitamente con un carattere forte. Queste persone confermano i loro errori per il modo in cui agiscono. Hanno bisogno di lavorare sulla pazienza, sulla tolleranza e sul saper vivere, come sull’imparare a stare soli e ad affidare le responsabilità.

5- L’ingiustizia 


Ha origine nei contesti in cui le persone che si occupano dei bambini sono fredde ed autoritarie. Durante l’infanzia, le esigenze esagerate e che passano i limiti generano sentimenti di inefficienza e di inutilità, tanto quando si è bambini come quando si è adulti.  
La conseguenza diretta sulla condotta di chi ne ha sofferto sarà la rigidità, poiché queste persone cercheranno di essere molto importanti e di acquisire molto potere. È probabile, inoltre, che si sia creato un fanatismo per l’ordine e per il perfezionismo, così come l’incapacità di essere sicuri sulle decisioni che si prenderanno. Bisogna lavorare sulla sfiducia e sulla rigidità mentale, cercando di essere il più flessibili possibile e cercando di credere negli altri.
Adesso che conoscete le cinque ferite dell’anima che possono influenzare il vostro benessere, la vostra salute e la vostra capacità di svilupparvi come persone, potete cominciare a guarirle.
Fonte: www.lamenteemeravigliosa.it
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mercoledì 10 febbraio 2016

Vivete, ridete e amate come i bambini

VIVETE, RIDETE E AMATE COME I BAMBINI

In molti sono convinti del fatto che l’età adulta implichi vivere una vita carica di responsabilità, ansia e dubbi. Forse è per questo che è così facile trovare adulti che all’età di 40 anni cercano di vivere come i loro figli. Altri ancora, sono così pieni di dubbi e rimpianti che preferirebbero lasciarsi tutto alle spalle e scappar via.
Se anche voi vi state affacciando su questa fase della vita, è il momento di prendere come esempio i bambini. Loro vivono, ridono e amano in modo così naturale da far sembrare che nella vita il male non esista.

“I bambini vedono la magia perché la cercano”
-Christopher Moore-

Riscoprite ciò che vi fa brillare




I bambini sono come un sole capace di illuminare ogni cosa al suo passaggio; loro non hanno idea di cosa siano le preoccupazioni per il futuro o di cosa significhi farsi carico di una responsabilità.
Non si vergognano se commettono un errore, e non hanno problemi ad esprimere i loro sentimenti; se cadono, sono sempre pronti ad alzarsi e ricominciare.
Tutte queste sono caratteristiche che dovrete tenere a mente per poter tornare a vivere, ridere ed amare come bambini. Dovrete concedervi ogni giorno il tempo per scoprire le più piccole cose ed emozionarvi con esse.
Non esiste una ricetta magica per dimenticarsi delle preoccupazioni. Dovrete permettere a voi stessi di vedere la realtà da una prospettiva piena di entusiasmo e positività.

Come si fa a vivere, ridere e amare come bambini?



1.Ridete tutte le volte che ne avete l’occasione



Non c’è bisogno di passare il tempo facendo scherzi stupidi o prendendovi gioco degli altri. Non è così che funziona. Si tratta piuttosto di sviluppare un senso dell’umorismo che vi renda felici.

“Il riso è il sole che scaccia l’inverno dal volto umano”.
-Victor Hugo-

2.Abbiate fiducia nei vostri superpoteri



Credete di non avere poteri? Vi sfidiamo a trovare cinque cose che vi riescono bene. Naturalmente non si parla di abilità stupefacenti:
·         Siete capaci di alleviare i problemi degli altri con le vostre battute?
·         Siete in grado di preparare una pasta deliziosa?
Questi sono solo due esempi, ma voi ne potrete trovare molti altri. Un superpotere è ciò che vi rende unici.

 

3.Osate!

I bambini non sprecano il loro tempo a chiedersi “Riuscirò a fare quella cosa?” o “Ho le capacità per…?”. I bambini si limitano a fare le cose. Purtroppo gli adulti dimenticano spesso l’importanza di scoprire sempre cose nuove.
Quando è stata l’ultima volta che avete fatto qualcosa che vi generava insicurezza? Può trattarsi di un semplice appuntamento così come di un lancio con il paracadute. Buttatevi in qualcosa di diverso!

“Tutto ciò che vuoi si trova fuori dalla tua zona di comfort”
-Robert Allen-

4.Uscite con i vostri amici



Avete mai fatto caso al fatto che i bambini sono sempre circondati da altri bambini? Questo li rende felici, poiché possono condividere i momenti buoni e quelli cattivi. Sono questi i momenti che rappresentano il nostro più grande tesoro: il ricordo dei migliori attimi della vita.
Dopo tutto, a cosa servono le cose materiali e i successi sul lavoro se non c’è nessuno con cui condividere queste gioie?

5.Siate ribelli



Molto probabilmente state per dire che non avete tempo o che siete sommersi da obblighi e doveri. Tranquilli, non c’è bisogno di abbandonare il lavoro per lanciarvi all’avventura per il mondo (tutto questo è possibile, anche se non è facile).
Essere ribelli significa non conformarsi.
Siete caduti nella monotonia dello status quo? Cosa ci fate lì? Inseguite i vostri sogni!
I bambini non fanno altro che ricercare nuove opportunità. Un nuovo gioco, nuovi amici… non sottostanno a etichette, e questo permette loro di essere se stessi e svilupparsi come persone.

“Siamo qui per lasciare un segno nell’universo. Altrimenti perché saremmo qui?”
-Steve Jobs-

6.Abbracciate coloro che amate



Se avete figli o avete altre occasioni per passare del tempo con i bambini, saprete sicuramente che a loro piace abbracciare gli altri senza un motivo apparente. In realtà, il motivo esiste: si tratta del semplice desiderio di farlo.
Questo è il loro modo di dimostrare il proprio amore, e per questo si godono il momento ridendo. La vita si tratta proprio di questo.
Non abbiate paura che le persone prendano male il fatto che le abbracciate. Se è la prima volta che lo fate, potrà sembrare strano, ma presto si sentiranno talmente a loro agio che faranno diventare questa pratica parte della loro stessa vita.
Allora? Siete pronti per vivere, ridere e amare come bambini? Non lasciate che la routine faccia tacere il bambino che è in voi. Non importa se avete 20 o 60 anni, ognuno di voi ha le capacità per farlo rivivere e consentirgli di godersi a pieno la vita.
Fatelo e basta!

Fonte: www.lamenteemeravigliosa.it
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mercoledì 3 febbraio 2016

Quattro pause intelligenti

QUATTRO PAUSE INTELLIGENTI
Diamoci una calmata, per favore. Siamo così travolti dal mito dell'accelerazione che tutto ci scorre addosso senza gusto, senza sapore. Sì, chi ha inventato la fretta, ci ha rubato la vita! È tempo di riscoprire il valore delle pause intelligenti.


Nell'acqua corrente non si vedono le stelle. I fiori artificiali si fanno in un giorno solo ma restano sempre senza profumo. Insomma, la fretta ci fa lo sgambetto! 
La fretta insidia tutto, a partire dall'educazione. Solo le pause costruiscono. A condizione che siano intelligenti, come le quattro che proponiamo.

La pausa tavola 
È incredibile la valenza educativa del mangiare seduti attorno ad una tavola! 
• A tavola si esperimenta la bellezza dello stare 'insieme' e non solo 'accanto' come le sedie. 
• A tavola si parla. Per questo non si invita mai la televisione, né a pranzo né a cena. 
• Ancora per questo si disattivano tutti gli strumenti della comunicazione digitale (telefonini, tablet, iPad, smartphone...). 
• A tavola ci si rilassa. Non si fa l'interrogatorio di sesto grado per indagare su un insuccesso scolastico. 
• A tavola si ride. Si mettono tra parentesi fastidi e preoccupazioni. 
• A tavola ci si colloca l'uno davanti all'altro perché gli occhi possano incrociarsi e parlarsi. 
• A tavola non ci si accorge solo se la minestra è cattiva, ma anche quando è buona, per ringraziare chi l'ha preparata. 
• A tavola i cibi si gustano, non si trangugiano. 
In una parola, a tavola si comprende che non è per nulla esagerato ciò che dice il nostro regista cinematografico Ermanno Olmi (1931): “Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico!”. 
La conclusione si impone: la pausa tavola è da salvare ad ogni modo, almeno una volta al giorno, preferibilmente di sera, per la cena! 
Dunque ci mettiamo d'accordo perché nessuno manchi, anche a costo di qualche sacrificio. 
La famiglia si costruisce di sera, seduti attorno al tavolo! 
Quello di casa, in primo luogo, e, di tanto in tanto, attorno a quello della pizzeria. 
Il portafoglio potrà forse essere un po' dissanguato, ma l'incremento della tenuta della famiglia e del suo potere educativo è assicurato!

La pausa panchina 
Sedersi su una panchina, estrarre un libro dalla tasca e mettersi a leggerlo è una seconda pausa intelligente. Com'è intelligente la lettura! La lettura sfama lo spirito. La lettura è l'antiruggine del cervello. È uscire da sé e incontrare qualcuno. Chi legge vive due vite: la sua e quella dello scrittore. 
In una parola: la lettura è la medicina più efficace per le anime anoressiche e rachitiche. Che cosa vogliamo di più per convincerci del potenziale educativo della pausa panchina?

La pausa ecologica 
Fanno paura i ragazzi che conoscono ogni cosa del computer, ma non sanno nulla della poesia del chiarore della luna, del profumo del glicine, della simmetria delle stelle marine, della raffinatezza delle libellule. Sono ragazzi disincantati, aridi, senza vibrazioni interiori. 
Ragazzi che non hanno mai sperimentato la pausa ecologica. 
Pausa necessaria! 
Abbiamo bisogno di sentire il tonfo delle castagne, di contemplare il mare, di accarezzare un fiore. 
La pausa ecologica è terapeutica. È provato che gli ammalati che vedono alberi dalla loro camera guariscono prima degli ammalati chiusi in camere cieche. 
È accertato che il contatto con la natura abbassa la tensione, attenua l'aggressività, rende piacevole la vita. Il valore umanizzante della pausa ecologica è così sicuro che qualcuno è arrivato a dire che contemplare il tramonto dovrebbe essere prescritto dal medico! 
Da parte nostra siamo certi che i ragazzi che non possono godere della pausa ecologica, non ringrazieranno mai d'essere nati!

La pausa preghiera 
Lo scrittore fiorentino Giovanni Papini (1881-1956) era solito dire che “per innalzarsi (il che è come dire: 'per educarsi')l'uomo ha bisogno di inginocchiarsi”. No, nessuna esagerazione! 
La pausa preghiera è una pausa superiore. 
La preghiera ingentilisce l'io (ricorda che esiste il “Grazie”) tonifica l'io (è una vera e propria forza) dilata l'io (invita a decentrarsi, ad uscire da sé) lo rende profondo (pregare è indagare sullo stato della propria salute spirituale). 
Sono brevi cenni, comunque tutti rigorosamente giustificabili, come abbiamo fatto altrove. 
Brevi cenni ma forse sufficienti per convincerci che chi decide di camminare con la schiena dritta dal mattino alla sera non può fare a meno di ritagliarsi un quarto d'ora di tempo ogni giorno per bisbigliare con Dio.

È inutile remare, se non si sa dove andare 
Ecco le nostre quattro preziose pause pedagogiche concentrate al massimo, per avere un breve spazio ancora per una confidenza. 
Molti lettori, forse, stanno pensando all'ingenuità delle nostre proposte che appaiono mille miglia lontane dalla realtà concreta. Impraticabili! Sì, avete ragione! Facile è scrivere, difficile è vivere! 
Può sembrare ironico suggerire di contemplare il tramonto quando, di fatto, si è circondati da muri di cemento armato! 
Ingenuo il richiamo alla preghiera quando le menti sono cariche di mille preoccupazioni... 
Sì: facile è dire, difficile è agire! 
Però ci pare di poter subito aggiungere che anche il “dire” ha la sua importanza insostituibile. 
Le parole indicano una meta ideale da raggiungere. Guai se mancasse tale segnaletica. 
Le nostre parole non vogliono colpevolizzare alcuno; tanto meno scoraggiare. 
I genitori non sono da rifare: sono da aiutare!

Autore: Pino Pellegrino
Fonte: Bollettino Salesiano gennaio 2016
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