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mercoledì 27 gennaio 2016

Tutto quello che dovremmo imparare dai bambini

TUTTO QUELLO CHE DOVREMMO 
IMPARARE DAI BAMBINI

I bambini hanno la capacità di contagiarci con le loro ambizioni, la loro voglia di vivere, la loro allegria, il loro modo di adattarsi con facilità ai cambiamenti … Sono loro l’impulso di vivere, la voglia di conoscere e il più grande esempio di spensieratezza nella vita di tutti i giorni.
C’è molto da imparare da loro, anzi dovremmo tornare ad essere tutti un po’ bambini! Per questo motivo, oggi condivideremo con voi 12 aspetti che tutti dovremmo imparare dai più piccoli.

Sei così piccolo e mi insegni così tanto

“Sei così piccolo, bambino mio, ma mi insegni così tante cose. Grazie a te, sento che il mondo è molto più bello, divertente e interessante, e che non è poi così complicato come credevo. Tu sei colui che mi fa capire quanto sia importante ridere per qualsiasi stupidaggine.
So che il tuo amore è sincero, senza maschere, così come le tue parole divertenti, in apparenza prive di senso. ma che in realtà acquisiscono un significato enorme.
Tu mi insegni a vedere tutto attraverso occhi diversi, occhi trasparenti e sinceri, non ancora contaminati dai convenzionalismi e dai cliché che la società ci impone.
Con te, tutto è semplicemente diverso, nuovo, inaspettato, pieno di illusioni! Tu ami senza aspettarti nulla, vivi ogni momento intensamente come se fosse l’ultimo, e tutto questo fa sentire me un uomo nuovo, vivo, rinnovato”.

 

12 cose che dovremmo imparare dai bambini

1.Emozionarsi

Non abbiate paura ad emozionarvi come bambini di fronte a un nuovo lavoro, un nuovo amore o a nuove amicizie… Emozionatevi anche per le piccole cose di tutti i giorni e per ogni obiettivo che raggiungete.
L’emozione, così come la motivazione, è il motore che vi porterà a realizzare i vostri sogni, non dimenticatelo mai.

2.Non abbiate paura di ciò che è nuovo

È meglio pentirsi di ciò che si è fatto, che provare rimorso per ciò che non si è fatto. Eliminate dal vostro repertorio frasi del tipo “E se fossi andato a quell’appuntamento con quella persona che mi piaceva tanto?”, “e se avessi accettato quel lavoro che mi spaventava?”.
La realtà non è fatta dalle ipotesi, e talvolta una piccola dose di rischio è necessaria per poter andare avanti. Non limitate voi stessi, avanzate.

 

3.Divertitevi come bambini

Fate come i bambini, lasciatevi alle spalle i pregiudizi o il parere degli altri. I più piccoli si divertono, ridono e gioiscono della vita, perché non badano a quello che dice chi sta loro attorno: pensano solo a vivere il momento.
Gustatevi ogni piccola cosa, sorridete ogni mattina di fronte al nuovo giorno e dipingete con un tocco di umorismo la vostra routine quotidiana.


4.Siate curiosi

Perdere la curiosità è un po’ come morire dentro. Siate curiosi di imparare cose nuove, di scoprire luoghi che non avete mai visto… La curiosità è ciò che contribuisce alla nostra piena realizzazione.

 

5.Siate sinceri

Spesso noi adulti non siamo liberi di parlare; proviamo paura o vergogna, perché non sappiamo se agli altri piacerà ciò che diremo, come reagiranno, se ne saranno turbati.
Se invece diciamo ciò che gli altri volevano sentirsi dire, non ci sentiamo bene con noi stessi. Liberatevi di questo peso, parlate con sincerità…come i bambini!
Se non saremo sinceri, non daremo la possibilità agli altri di conoscerci, e neppure a noi stessi.

6.Godetevi il momento

Si dice “approfitta dei momenti positivi, perché quelli negativi vengono da soli”. Vivete, godetevi la vita, sfruttate ogni momento di svago.
Molte volte, quando una malattia bussa alla nostra porta o quando una persona amata ci lascia, ci rendiamo conto di moltissime cose. Forse dovremmo essere più consapevoli che siamo “qui” solo di passaggio.

7.Amate senza motivo

Perché abbiamo così tanto timore dell’amore? I bambini amano senza un perché. Loro non pensano che il loro animale morirà un giorno o che il loro amore infantile da adulti sarà solo un ricordo lontano.
Non badate al domani, godetevi l’oggi. L’amore è una delle cose più belle che si possano vivere, perché vi spaventa tanto? Avete paura di soffrire? Tutto passa, anche la sofferenza… pensate soltanto che la vita vale la pena di essere vissuta.

 

8.Adattatevi ai cambiamenti

Quando si tratta di adattarsi ai cambiamenti, i bambini sono degli autentici maestri. Possono cambiare casa, scuola o stato, ma non succede nulla!
E a noi adulti, cosa mai potrebbe capitare? I cambiamenti servono a rinnovare e arricchire le nostre vite.

 

9.Non abbiate paura di cadere, vi rialzerete

Avete mai visto un bambino cadere a terra senza poi rialzarsi? La vita funziona così: spesso è la nostra mente l’unica ad imporci dei limiti.
Frasi del tipo “non lo farò per paura di non riuscirci” non fanno che ancorarci al punto in cui ci troviamo senza darci la spinta giusta per proseguire per la nostra strada.
Cadete per rialzarvi, non c’è niente di male!

10.Non badate troppo ai grandi

Diamo troppa importanza a chi ci sta intorno. È questo che volete davvero?
Ascoltate il vostro cuore, agite in base a ciò che siete.

 

11.Chiedete senza paura e senza vergogna

Che cosa c’è di male nel chiedere? Pensate di apparire sciocchi facendo una domanda? Succede esattamente il contrario: chiedere dimostra la nostra umiltà e la nostra voglia di conoscenza.

12.Riposate, non forzate il vostro corpo

Quando un bambino è stanco, va a dormire… molto spesso, il mancato riposo ci fa cadere in uno stress cronico che non ci permette di vivere. Fate un respiro profondo e prendetevi il tempo per recuperare le forze.
Per concludere: tornate ad essere bambini e non perdete mai la speranza! Come riuscirci? Avendo sempre un bambino accanto.
Fonte: www.lamenteemeravigliosa.it
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mercoledì 20 gennaio 2016

EDUCARE ALL'AUTOSTIMA

Educare all'autostima

Educare all'autostima, significa aiutare i propri figli ad amarsi e a credere in se stessi.
L’autostima di una persona si differenzia dal "concetto di sé".
Il Concetto di sé è la costellazione di elementi a cui una persona fa riferimento per descrivere se stessa, mentre l’autostima è la valutazione circa le informazioni contenute nel concetto di sé; deriva dai sentimenti che una persona ha nei confronti di se stessa in senso globale.

L’autostima si misura dal divario fra
Sé percepito: visione oggettiva delle proprie abilità, caratteristiche qualità presenti o assenti
e
Sé ideale: immagine della persona che ci piacerebbe essere.

Un divario piccolo denota alta autostima, mentre un divario significativo è segnale di bassa autostima.

Come nasce il senso di autostima in un bambino?

Si costruisce fin dal primo giorno di vita nel rapporto con gli altri e si struttura dai segnali che l’ambiente circostante e le persone che si occupano del bambino gli inviano.
Il neonato può basarsi solo su elementi esterni per misurare il suo valore, perché non è ancora in grado di percepirsi come entità differenziata da chi lo accudisce. Quindi un bambino nutrito, coccolato, massaggiato, tenuto fra le braccia sarà un bambino che avrà in sé la sensazione di valere e di essere accettato.
È così che si getta il cosiddetto «seme dell’autostima».
Ma l’autostima non la si raggiunge definitivamente da neonati; è qualcosa che va coltivato e nutrito negli anni dell’età evolutiva e in adolescenza.
Il senso dell’autostima nel bambino viene alimentato da due esperienze:
·         1) quando una persona per lui importante «lo vede»;
·         2) quando sente di essere riconosciuto e apprezzato dagli altri per quello che è e non per le sue azioni.
«Essere visto» per un bambino significa essere preso in considerazione e ricevere conferma della propria esperienza ed esistenza. Essere riconosciuti ed apprezzati per come si è, significa avere la certezza di essere amati solo per il fatto di esistere indipendentemente dalle azioni e dai risultati raggiunti; è ciò che dà dignità all’essere della persona.

Capire se un bambino ha una buona autostima

Per capire se un bambino ha una buona autostima un genitore può :


·         Ascoltarlo e osservare il suo comportamento;
·         Chiedere alle maestre come si comporta a scuola e quanti amici ha. Non è necessario che sia amico di tutti; due o tre amici possono bastare;
·         Osservare i suoi giochi simbolici: tanto più importante è il personaggio impersonificato, tanto maggiore sarà la sua autostima;
·         Chiedergli di disegnare la sua famiglia e vedere lui in che posizione si colloca;
·         Vedere quanto interesse pone nel come si presenta (essere pettinato, ben vestito etc.);
·         Osservare se si ritrae davanti alle difficoltà o le affronta.

Aiutare un bambino a promuovere la sua autostima

Per cercare di aiutare un bambino a promuovere la sua autostima i genitori posso fare molto. Mi soffermerò solo su alcuni punti, per me basilari :
1) Innanzi tutto è necessario sostenere lo sviluppo della sua autonomia. 
Ovvero è necessario spronare il bambino a fare da solo le cose, a confrontarsi in prima persona con i suoi compiti e i suoi impegni. È sconsigliabile sovrapporsi a lui nel fare le cose, ma è necessario essere pronti a sostenerlo, consolarlo e incoraggiarlo davanti agli insuccessi;
2) Di fronte alle difficoltà, essere di conforto e sollievo, cercando insieme una soluzione per promuovere i punti di forza e combattere i punti deboli del bambino;
3) Assecondare le inclinazioni naturali del bambino e rispettarne il carattere. Il bambino è esattamente come deve essere, noi non lo dobbiamo cambiare; dobbiamo aiutarlo a tirare fuori il meglio di quello che può esprimere;
4) Ascoltarlo, mostrare interesse verso quello che dice, prenderlo sul serio. Tante volte, per stanchezza o per pigrizia, facciamo fatica ad ascoltare i bambini quando ci raccontano dei loro giochi e dei personaggi di fantasia. È importante sapere dedicare anche a questi aspetti la giusta attenzione, perché rappresentano per il bambino un modo per parlarci di sé, delle sue emozioni e delle sue esperienze;
5) Gioire insieme a lui in modo sincero per i suoi primi piccoli/grandi successi (il primo bel voto a scuola, l’aver imparato ad andare in bicicletta, l’essere riuscito ad allacciarsi le scarpe a solo);
6) Avere aspettative ragionevoli e commisurate all’età;
7) Educarlo alle emozioni, in modo che le sappia gestire e sappia convivere anche con quelle negative senza esserne sopraffatto.
Per coltivare l’autostima dei figli è necessario lavorare anche sull’autostima dei genitori, poiché genitori con buona autostima si sentono maggiormente efficaci coi figli, sanno porre confini chiari, tollerano la frustrazione, promuovono l’autonomia e l’individualità del bambino e, infine, sono da esempio per i bambini.
Fonte: www.genitorichannel.it
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mercoledì 13 gennaio 2016

DISAGIO, DSA E BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI

Disagio, Disturbi Specifici dell'Apprendimento e 
Bisogni Educativi Speciali

Il termine disagio è composto da “dis”, prefisso con valore negativo, e da “agio” sostantivo che attiene ad una situazione di comodità, di benessere sia psicologico sia fisico. Pertanto il “dis-agio”, globalmente inteso, indica uno stato, una condizione di mal-essere, un sentirsi non in sintonia con l’ambiente,con la situazione socio-culturale in cui si vive.
Termine “contenitore”, termine “ombrello”, il disagio fa riferimento a varie problematiche, «ad una serie di vissuti soggettivi che includono sofferenza, frustrazione, insoddisfazione e alienazione riferibili genericamente all’insieme delle condizioni obiettivamente difficili che pesano sui processi di maturazione personale e di inserimento sociale dei giovani» (1).
In ambito scolastico, il disagio si presenta come un’esperienza vissuta dall’alunno nell’affrontare le diverse attività e le regole che sono proprie; essa può rivelarsi tragica o terapeutica, a seconda della possibilità e della disponibilità dell’insegnante ad accogliere, “leggere”, interpretare il disagio ed intervenire sul medesimo. Tale situazione caratterizza, pertanto, una condizione-limite tra un alunno in difficoltà nell’adattarsi alla scuola e una scuola in difficoltà circa gli interventi e le strategie più opportune da adottare .
È la scuola a essere ritenuta la responsabile di questa situazione poiché presenta un’offerta educativa alla quale non sempre e/o non costantemente l’alunno è in condizione di rispondere in modo costruttivo e convincente; questo comporta il rifiuto di tale offerta e delle modalità per mezzo delle quali viene proposta. La scuola diviene, così, luogo di esperienze negative che se non individuate per tempo ed affrontate con efficacia, possono dare luogo a fenomeni di drop-out.
Nel corso degli ultimi anni è aumentato considerevolmente il numero di alunni che presentano varie tipologie di difficoltà le quali non sono riconducibili alle principali classificazioni dell’ICF, ma che avanzano agli insegnanti richieste di interventi “curvati” sulle loro caratteristiche peculiari che derivano dalla loro situazione peculiare. Una situazione di “difficoltà” la quale, non rientrando nei parametri delle classificazioni dell’OMS (l’ICF è una delle più importanti) non possono essere “certificati” ed avere, di conseguenza, una diagnosi funzionale che consenta loro di seguire un “percorso scolastico” ad hoc. Con il DPCM n.185 del 23 febbraio 2006 è cambiato (in senso “restrittivo”) il regolamento per la certificazione dell’handicap ai fini dell’inserimento scolastico in quanto le attività di sostegno andranno rivolte ai soli alunni che presentano una minorazione fisica,psichica o sensoriale stabilizzata e progressiva.
Ne deriva che gli alunni i quali presentano deficit non gravi né progressivi non possano avere un aiuto ulteriore costituito dalla presenza del docente di sostegno: succede che sia loro sia i rispettivi insegnanti vivano esperienze difficili in quanto i primi non vedono nessun vantaggio nel frequentare la scuola e i secondi si sentono in difficoltà nell’affrontare e nel gestire situazioni che non rientrano nella “norma”. Si tratta di ragazzi che non “stanno bene” a scuola, che la subiscono; è ovvio che la scuola non può e non deve fare tutto: in un sistema formativo integrato essa svolge un compito importante, ma non esclusivo, tuttavia fondamentale. A tale proposito il ministro Fioroni con la Direttiva 18 aprile 2007 parlò di “ben-essere” dello studente ed elencò queste 10 aree di intervento:
1. promuovere stili di vita positivi, contrastare le patologie più comuni, prevenire le dipendenze e le patologie comportamentali ad esse correlate;
2. prevenire obesità e disturbi dell’alimentazione (anoressia e bulimia);
3. rispettare e vivere l’ambiente per una migliore qualità della vita;
4. promuovere e potenziare l’attività motoria e sportiva a scuola per essere sportivi consapevoli e non violenti;
5. promuovere il volontariato a scuola;
6. sostenere la diversità di genere come valore (sessualità, identità, comunicazione e relazione);
7. accogliere e sostenere gli studenti con famiglie straniere, adottive e affidatarie;
8. promuovere la cultura della legalità ed educare alla cittadinanza attiva in Italia e in Europa anche attraverso lo studio della nostra Costituzione. Prevenire e contrastare il bullismo e la violenza dentro e fuori la scuola;
9. prevenire gli incidenti stradali attraverso la conoscenza delle regole di guida e il potenziamento dell’educazione stradale;
10. promuovere il corretto utilizzo delle nuove tecnologie.
Pur non affrontando direttamente la tematica relativa ai disturbi dell’apprendimento, questo decalogo ai punti 6, 8 e 10 fa riferimento puntuale alle situazioni negative in cui si trovano a vivere gli studenti che sperimentano nella scuola il disagio derivante anche (o solamente) dalle difficoltà/disturbi dell’apprendimento.
L’alunno che “avverte” di non essere in grado di leggere in modo funzionale allo studio e all’apprendimento delle varie materie di studio prova un profondo disagio anche nella comunicazione e nella relazione con gli adulti e con i coetanei; spesso “nasconde” o “camuffa” questo disagio con comportamenti provocatori; oppure è disattento, agitato,disturba il normale svolgimento delle lezioni. Spesso ad un’osservazione superficiale questi comportamenti ed atteggiamenti vengono attribuiti a scarso interesse, svogliatezza, basso livello di autostima. Spesso l’alunno non viene posto nella condizione – sia da parte dei docenti sia da parte dei compagni (che molte volte lo deridono) – di manifestare la reale condizione che sta vivendo; motivo per cui se gli insegnanti non individuano per tempo le reali cause di un tale comportamento e di tale situazione l’alunno si isola dal contesto-classe fino ad abbandonare gli studi.
Se, invece, gli insegnanti individuano le cause “profonde” del disagio sono in grado di affrontare la situazione in modo adeguato e di rassicurare e confortare l’alunno nel difficile processo di apprendimento. Gli alunni che presentano queste e altre difficoltà, ma che non sono “certificati” vengono identificati con l’acronimo BES (Bisogni Educativi Speciali) con il quale si indica «una qualsiasi difficoltà evolutiva in ambito educativo ed apprenditivo ,espressa in funzionamento (nei vari ambiti della salute secondo il modello ICF dell’Organizzazione mondiale della sanità) problematico anche per il soggetto, in termini di danno, ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia e che necessita di educazione speciale individualizzata» (2).
Definire e ricercare i Bisogni Educativi Speciali non significa “fabbricare” alunni diversi per poi emarginarli o discriminarli in qualche modo. Significa rendersi conto delle varie difficoltà, grandi e piccole, per sapervi rispondere in modo adeguato (Janes 2005).
Esistono anche soggetti che vengono classificati con l’acronimo EES (Esigenze Educative Speciali): si tratta di persone caratterizzate da qualsiasi difficoltà evolutiva nell’ambito dell’educazione e dell’apprendimento caratterizzata da un funzionamento problematico (danno, ostacolo, stigma sociale).
La Direttiva del 24 dicembre 2012 individua e definisce meglio la situazione dei soggetti BES; un passaggio importante è rappresentato dalle affermazioni seguenti: «Gli alunni con disabilità si trovano inseriti all’interno di un contesto sempre più variegato, dove la discriminante tradizionale – alunni con disabilità/alunni senza disabilità – non rispecchia pienamente la complessa realtà delle nostre classi. Anzi, è opportuno assumere un approccio decisamente educativo, per il quale l’identificazione degli alunni con disabilità non avviene sulla base della eventuale certificazione, che certamente mantiene utilità per una serie di benefici e di garanzie, ma allo stesso tempo rischia di chiuderli in una cornice ristretta. A questo riguardo è rilevante l’apporto, anche sul piano culturale, del modello diagnostico ICF (International Classification of Functioning) dell’OMS, che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale. Fondandosi sul profilo di funzionamento e sull’analisi del contesto, il modello ICF consente di individuare i Bisogni Educativi Speciali (BES) dell’alunno prescindendo da preclusive tipizzazioni. In questo senso, ogni alunno può presentare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta». Viene sottolineata l’importanza della classificazione ICF,ma anche la necessità di non “circoscrivere” l’alunno con disagio/difficoltà/disturbo in una  ”cornice ristretta” perché si limiterebbe il suo processo di inclusione nel contesto-classe.
L’assenza di certificazione non consente all’alunno di accedere alle provvidenze ed ai servizi previsti dalle legge 104; nonostante la mancata presenza dell’insegnate di sostegno, gli insegnanti curricolari sono emotivamente e professionalmente impegnati nella elaborazione di strategie di intervento “curvate” sulle caratteristiche peculiari di  ”quel” determinato alunno affinché riduca (o elimini) la negatività della sua situazione. Si tratta di un “percorso” delicato e difficile che alunno, genitori ed insegnanti devono seguire insieme in un confronto “a rete” e scevro da pregiudizi.
Gli insegnanti, soprattutto, devono osservare attentamente (esistono al riguardo molte schede di osservazione) e sistematicamente l’alunno, già dalla scuola dell’infanzia, poiché una individuazione tempestiva di un deficit consente agli insegnanti e ai genitori di predisporre gli interventi più opportuni. Questa considerazione si attaglia soprattutto ai soggetti con DSA in quanto le difficoltà e/o i disturbi dell’apprendimento vengono ritenuti meno gravi di un altro deficit e, di conseguenza, i genitori, soprattutto, sottovalutano, in alcuni casi, la gravità del problema.
Concludo questo intervento con alcune considerazioni che vanno “controcorrente” e che stimolano una riflessione ulteriore riguardo ai soggetti con DSA, ma anche a quelli che vengono “certificati” causa la presenza di altri deficit: «Siamo di fronte al sovvertimento della funzione dello psicologo, che invece di assistere chi manifesta dei problemi e chiede aiuto (anche tramite la famiglia), si arroga (con inammissibili pressioni psicologiche) il diritto di “testare” l’intera società per decidere chi è sano di mente e chi è non lo è, oltretutto in base a criteri di dubbio valore scientifico. Difatti, proprio in questi giorni, mi è occorso di leggere articoli circa i criteri con cui gli psicologi dovrebbero individuare i soggetti “discalculici”, talmente assurdi e incompetenti che c’è da rabbrividire all’idea di consegnare i bambini a chi scoprirà disturbati dove non ve ne sono, facendo entrare molti sani nel tunnel della disabilità. È assai probabile che chi avesse sottoposto a test del genere Albert Einstein o René Thom, li avrebbe catalogati come disturbati e sottoposti a un programma didattico differenziato sotto un “gruppo di controllo” di psicologi» (Giorgio Israel, Il Foglio 21.4.2011).
Fonte: is.pearson.it
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