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venerdì 29 maggio 2015

Cellulare in classe? No, grazie.

CELLULARE IN CLASSE? NO, GRAZIE.

Lo studio: bandirli dalle aule ha l’effetto di un’ora in più di lezione alla settimana. E il fenomeno è più marcato per gli studenti più poveri o con voti più bassi

Cellulare a scuola, sì o no? Alcuni genitori non ci dormono la notte, mettono paletti, trattano con i figli le regole da seguire. Adesso una risposta arriva dagli economisti: se volete che i vostri ragazzi abbiano risultati scolastici migliori, lo smartphone deve rimanere a casa. Bandire il cellulare dalle aule ha un effetto che un centro di ricerca inglese ha misurato: vale quanto una settimana in più di lezione. Lo sostengono Louis-Philippe Beland and Richard Murphy, in un lavoro pubblicato dal «centro per le performance economiche» della London School of Economics, di cui dà conto il Guardian. Lo studio conclude che «nelle scuole in cui il telefonino è bandito, i voti sono più alti». Un fenomeno ancora più marcato per gli studenti più poveri o con voti più bassi.
Una settimana in più
I ricercatori hanno esaminato le performance di 91 scuole superiori di quattro città inglesi, confrontando i registri degli esami e le politiche sui cellulari tra il 2001 e il 2013. In generale i voti nelle classi in cui smartphone e gadget digitali erano banditi, i punteggi dei test miglioravano del 6,41% in media: un valore equivalente a «un aumento della probabilità di passare gli esami finali del 2%», scrivono gli autori. «È lo stesso effetto - spiega uno di loro, Richard Murphy - che si avrebbe con un’ora in più a settimana, o aggiungendo una settimana in più all’anno scolastico».

Risultati migliori
Per gli studenti con voti più bassi, scrivono gli autori, l’aumento dei punteggi e della probabilità di successo agli esami è doppio rispetto alla media, ed è ancora maggiore per gli studenti con bisogni educativi speciali e per quelli più poveri, mentre tende ad annullarsi per i più bravi.

Tecnologia che distrae
Tecnologie che «fanno tante cose diverse», sostengono i ricercatori, hanno un effetto negativo sulla produttività degli studenti. Il multitasking distrae. Non avere lo schermo costantemente sott’occhio, la possibilità di giocherellare sotto il banco, o anche solo la vibrazione del messaggio in arrivo, consent e di concentrarsi di più, con benefici immediati sui risultati.

I divieti
La ricerca non arriva a sostenere che i cellulari siano dannosi. E non nega che, se correttamente utilizzati, possano essere un efficace aiuto per lo studio. Ma in Paesi come la Gran Bretagna, dove oltre il 90 per cento degli adolescenti possiede uno smartphone, il dibattito si è fatto acceso e sono sempre più numerosi i dirigenti scolastici che obbligano i ragazzi a consegnare il telefonino, a inizio giornata o durante le verifiche. In Italia? La regola c’è: l’uso del cellulare a scuola è vietato. Lo ha disposto il ministro dell’Istruzione con una direttiva (15 marzo 2007), che impegna tutte le scuole a regolamentarne l’uso, con esplicito divieto durante le lezioni. Ma norme e regole possono essere di difficile applicazione. Anche i prof, d’altronde, spesso «dimenticano» di spegnere il cellulare in classe: il divieto (e da ben prima, scritto in una circolare del ‘98), vale anche per loro.

«Scendere a patti»
Ma adesso che, nonostante i divieti, l’uso improprio del telefonino nelle aule è diventato consuetudine, come fare marcia indietro? «Difficile, fa ormai parte della vita emotiva e affettiva dei ragazzi - dice Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva, che con gli studenti ha un canale di ascolto privilegiato -. Ha sostituito il vecchio bigliettino che usavamo noi adulti per comunicare in classe». È importate, dice, «scendere a patti con i ragazzi, stabilire le finestre in cui possono usarlo e i momenti in cui assolutamente no. Se non stanno alle regole va bene tutto: la nota sul registro, il sequestro». E poi non nascondiamoci dietro a un dito: siamo noi genitori che abbiamo aderito al fatto che i ragazzi portino il cellulare in classe, fin dalle elementari, per poter parlare con loro quando vogliamo. Ma quando sono a scuola, la responsabilità passa ad altri e se voglio parlare con mio figlio mi rivolgo a chi in quel momento lo ha nel suo controllo». «C’è stata confusione - continua lo psicologo - tra l’uso del mondo Internet per essere maggiormente informati e l’attaccarsi al web per “staccarsi dalle lezioni”. 
Lasciamo fare, magari per una forma reverenziale nei confronti dei giovani che sanno usare le tecnologie meglio di noi. E loro crescono senza neppure essere consapevoli che è maleducazione». La conseguenza, certo, è che distraibilità e mancata partecipazione sono sempre in agguato. «I ricercatori hanno fatto il conto in una settimana di scuola “persa”? Hanno stimato al ribasso - dice - il tempo buttato è sicuramente molto di più».

Autrice: Antonella De Gregorio
Fonte: www.corriere.it

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venerdì 22 maggio 2015

Coltivare la passione per la lettura

COLTIVARE LA PASSIONE 
PER LA LETTURA

Leggere è come fare sport... è indispensabile, eppure troppo spesso vi rinunciamo.
Non ho mai tempo... quando poi ho tempo, non so cosa leggere... vi suona familiare?
Per me leggere è come una navetta stellare per la mente. Apre le porte di nuovi universi.
Quando finalmente ti concedi il tempo e lo spazio per leggere scopri mondi nuovi, la tua percezione delle cose quotidiane cambia di livello.
Un bel romanzo può essere insieme viaggio in luoghi mai visti, turbini di sentimenti che indugiano dentro di te per ore o per giorni, amplificatore di intuizioni, radar per nuove idee, traduttore di sensazioni, corso di formazione su te stesso o sulla geografia, la politica, i diritti civili, la storia. I libri sono una macchina del tempo, possono trasportarti nel futuro o nel passato, aprirti la mente verso verità grandissime come la libertà, l'eguaglianza, la giustizia.
Non è proprio un caso se nelle dittature e nei regimi i libri sono sempre stati censurati ed ostracizzati.
Se siete in un periodo di astinenza da libri, perché non avete tempo, fatevi un regalo: dedicate del tempo ad un libro.
Aiutare i bambini a sviluppare il gusto per la lettura significa mettere uno dei nostri tanti doni nel loro bagaglio. Come si fa?
Un po' la passione per la lettura è innata, ma un po' possiamo alimentarla.
Ecco 4 suggerimenti semplici: 
1. iniziare fin da piccoli a leggere loro le fiabe dai libri. Nelle librerie ogni settimana vi sono degli appuntamenti di lettura ad alta voce che i bambini adorano
2. scegliere i titoli giusti: un libro che appassiona si divora come una torta squisita. Un libro che non appassiona fa perdere il gusto per la lettura. All'inizio dobbiamo affidarci ai consigli di chi ha già letto, magari di un bravo libraio o bibliotecario. Quando abbiamo capito che genere piace a nostro figlio o figlia, possiamo circoscrivere il campo.
Certe volte i classici ci vengono in soccorso, ma a volte quello che piace a noi non piace ai nostri figli, meglio sperimentare anche gli autori nuovi.
3. Non costringere mai alla lettura! Invogliare e stimolare è importante, ma non spingete mai troppo perchè potreste avere l'effetto contrario.
4. Dare l'esempio: come sempre l'esempio vale più di tante parole. Un genitore che legge, che porta sempre in viaggio un libro dà uno stimolo naturale importante.

Fonte: www.genitorichannel.com

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mercoledì 20 maggio 2015

Educazione e istruzione = Sviluppo economico

EDUCAZIONE E ISTRUZIONE = SVILUPPO ECONOMICO

“Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ce le scambiamo, allora tu ed io abbiamo sempre una mela ciascuno. Ma se tu hai un'idea, ed io ho un'idea, e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee”.

Con questa celebre intuizione, lo scrittore irlandese George Bernard Shaw sottolineava, con un certo grado di genialità, come l’economia sia indissolubilmente correlata alle conoscenze, alle idee e ai valori dei singoli individui. Lo scambio di cui parla Shaw, è infatti lo scambio economico fondato sul capitale umano, quell’insieme di facoltà e risorse umane acquisite durante la vita dalla persona che danno luogo alla capacità dell’uomo di trasformare l’ambiente in cui vive per raggiungere il un maggior grado di benessere, del singolo come della collettività.

L’economia, prima che lo sfruttamento delle risorse e dei capitali tangibili, è economia della conoscenza. E come possono crescere le conoscenze se non attraverso l’educazione e l’istruzione?
Lo ha ben compreso il Consiglio Europeo quando, all’inizio di questo terzo millennio, ha indicato con il Trattato di Lisbona come determinante il ruolo svolto dall’istruzione e dall’educazione continua nel processo di crescita della competitività dell'Europa nel mondo, oltre che in quello di rafforzamento della coesione sociale e del benessere individuale dei cittadini.

Come indicato dal Ministero dello Sviluppo Economico italiano, gli effetti socio-economici generati in un Paese da maggiori investimenti in educazione e istruzione possono essere condensati in tre tipologie:
- effetti immediati sui rendimenti privati individuali, ed in particolare sulle prospettive occupazionali e di reddito, e sulle occasioni ulteriori di accumulazione di conoscenza e capacità (life-long learning);
- esternalità sui rendimenti sociali, la produttività e su altre componenti dello sviluppo, come quelli sulla crescita complessiva, ma anche quelli sulla salute, sulla riduzione della criminalità e sulla partecipazione attiva dei cittadini alla vita sociale e ai processi di sviluppo: tutte componenti che influenzano in senso ampio lo sviluppo e il benessere della collettività;

- effetti innovativi e di rottura: l’istruzione incoraggia l’imprenditorialità, la creatività e la predisposizione all’innovazione e al cambiamento. Può interrompere una catena ereditaria di insuccesso tramandata da genitori ai figli.
E’ attraverso l’educazione che un Paese integra la sua organizzazione economica e i suoi principi etici. Un maggior livello di istruzione incoraggia la libera iniziativa, la cooperazione e lo scambio, senza perdere di vista valori come la fiducia, l’equità, la tolleranza e la nonviolenza. E’ ampiamento dimostrato, inoltre, che laddove aumentano le scuole e gli insegnanti, diminuiscono la povertà e le guerre.

Ecco perché, guardando ai 57 milioni di bambini che nel mondo ancora oggi non possono accedere neanche alla scuola primaria, a quel 64% di bambini e a quel 70% di bambine che nei Paesi in via di sviluppo non riescono a frequentare la scuola secondaria, ai 30 milioni di bambine in età scolare ancora analfabete, oggi è così importante ribadire ciò che affermava Benjamin Franklin già 3 secoli fa: “Il rendimento dell’investimento in conoscenza è superiore ad ogni altro investimento. È la radice del progresso umano e sociale, la condizione per lo sviluppo economico”.

Fonte: www.fondazionepatriopaoletti.org

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venerdì 15 maggio 2015

Separazione e figli contesi: la Sindrome da Alienazione Parentale

SEPARAZIONE E FIGLI CONTESI
La Sindrome da Alienazione Parentale

L’Alienazione Genitoriale o Parentale fu considerata una sindrome (Parental Alienation Syndrom o PAS) negli anni ’80 del secolo scorso da Richard Gardner. Lo psichiatra la definì una condizione che può presentarsi in situazioni conflittuali di separazione o divorzio e che si manifesta come un’ingiustificata campagna denigratoria fatta – di solito – dal figlio ai danni del genitore non residente (alienato), a seguito di un lavaggio del cervello subito da parte del genitore residente (alienante o programmatore).
Bambini strumentalizzati, dunque, e manipolati contro l’ex partner. Il che si traduce anche nel rifiuto del minore di incontrare e frequentare il genitore vittima. Gardner è stato duramente criticato e molti mettono in dubbio l’esistenza della PAS, ma la questione è delicata e importante, perciò va approfondita.
Che motivazione avrebbe la PAS?
Un genitore monopolizza il figlio per punire l’ex partner, prendersi una sorta di rivincita o compensare ciò che pensa di aver perso, convinto che tanto per il bambino, la presenza e l’amore del genitore alienato siano superflui o addirittura dannosi.
In cosa consiste la PAS?
Il genitore alienante – anche in presenza del figlio – aggredisce verbalmente l’altro genitore, addossandogli tutte le colpe della separazione e accusandolo di trascuratezza o addirittura di violenze o abusi (anche sessuali). Il minore, a quel punto, è portato a credere di aver bisogno di protezione e stringe un’alleanza contro il genitore bersaglio.
Secondo Gardner, quali sono i “sintomi”?
1.      campagna di denigrazione verso il genitore rifiutato;
2.      argomentazioni deboli da parte del bambino per giustificare il suo rifiuto nei confronti del genitore alienato;
3.      mancanza di ambivalenza: il bambino considera un genitore completamente positivo e l’altro completamente negativo;
4.      fenomeno del pensatore indipendente: il bambino afferma di non aver subito influenze nell’elaborare la campagna di denigrazione;
5.      sostegno automatico al genitore alienante, sempre e comunque;
6.      assenza di senso di colpa: il rifiuto del genitore alienato è considerato una meritata punizione;
7.      sceneggiature prese a prestito: il bambino riferisce espressioni e avvenimenti che non può conoscere, ma che – evidentemente – gli sono stati riferiti dal genitore alienante, che lui emula;
8.      ostilità anche verso la famiglia, gli amici e l’eventuale nuovo/a compagno/a del genitore rifiutato.
Quali sono i presupposti della PAS?
L’effettiva innocenza del genitore alienato e il ruolo attivo del figlio, che esprime – in apparente autonomia – ostilità e disprezzo verso il genitore alienato.
Quali rischi e conseguenze può avere questa violenza emotiva?
Una separazione, come già sottolineato in questo post, non è dannosa di per sé, ma diventa molto pericolosa e dannosa se gestita in modo conflittuale e scorretto, ponendo il bambino come arma o trofeo e facendolo sentire responsabile della felicità di uno dei due genitori.
La PAS può comportare problemi relazionali, ma anche – nel lungo periodo – un senso di perdita nei confronti del genitore rifiutato, minore autostima, senso di colpa, problemi nello sviluppo della propria identità (anche di genere), narcisismo, riduzione della capacità di provare simpatia ed empatia, mancanza di rispetto verso le autorità o paranoie. Lo sviluppo affettivo, cognitivo, relazionale e fisico potrebbe risentirne.
Allora, esiste la PAS?
La PAS è ritenuta una forma di violenza psicologica contro i minori e contro un genitore. Nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, però, non è presente la Parental Alienation, anche se c’è chi sostiene che è perché il fenomeno è denominato in altro modo. Nel DSM, infatti, si spiega che i problemi cognitivi nel problema relazionale genitore-figlio
possono includere attribuzioni negative delle intenzioni dell’altro, ostilità o biasimo dell’altro e sentimenti ingiustificati di alienazione“.
Per alcuni, la PAS è solo frutto di strumentalizzazioni giuridiche o tentativi di giustificare comportamenti violenti di un genitore che, per sfuggire alle proprie responsabilità, se ne dice vittima. Secondo la comunità scientifica, la PAS, non rappresenterebbe un disturbo individuale ma, comunque, un grave fattore di rischio evolutivo per lo sviluppo psico-affettivo del minore. Il presidente della Società Italiana di Psichiatria definì la PAS “priva di presupposti clinici, di validità e di affidabilità”.
Comunque, il dibattito scientifico e giuridico è aperto.
Cosa si può concludere?
Strumentalizzare il proprio figlio o denunciare o portarlo a denunciare falsi abusi è già di per sé un abuso. Più che una malattia o una sindrome vera e propria, dunque, la PAS potrebbe essere considerata un comportamento lesivo ai danni del minore strumentalizzato.
Al di là di come si etichetti il fenomeno, non sempre i genitori manipolatori sono consapevoli delle conseguenze del loro agire, perché accecati dal proprio dolore legato alla separazione.
Ma un figlio ha il diritto di crescere amando e frequentando entrambi i genitori.
Si può spezzare il legame all’interno della coppia coniugale, ma non all’interno della coppia genitoriale e i due piani non vanno confusi.
Anche il genitore che sa di avere ragione non deve “usare” il proprio figlio, attaccare l’ex partner, né venire meno a sentenze del Tribunale relative a visite o mantenimento… potrebbe ottenere l’effetto contrario a quello sperato. Se la serenità dei figli è in pericolo, meglio ricorrere a professionisti, che – al di là di desideri di giustizia o vendetta – sapranno consigliare le strategie difensive e comunicative più opportune e intervenire da un punto di vista sia psicologico sia legale.

Autrice: Mariapaola Ramaglia
Fonte: www.mammeacrobate.com

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mercoledì 13 maggio 2015

Educare per istruire

EDUCARE PER ISTRUIRE
Investire sul capitale umano

Nel diciottesimo secolo il filosofo ed economista Adam Smith, oltre a gettare le basi dell’economia politica classica, fu il primo a dare una definizione di capitale umano. Nella sua opera “La Ricchezza delle Nazioni” propose infatti l’analogia tra gli uomini e le macchine produttrici, sostenendo che lo sviluppo degli uomini, come la produzione delle macchine, richiede l’impiego di risorse economiche, quindi risulterebbe errato considerare per il calcolo della ricchezza nazionale il valore di queste ultime e trascurare quelle degli uomini.
Oggi, a quasi due secoli e mezzo di distanza, ancora una volta il concetto di capitale umano è al centro di svariate indagini economiche, come il report dell’OECD dal titolo “The High Cost of Low Educational Performance”. La ricerca dimostra come investire sul capitale umano, sull’educazione e poi sull’istruzione delle nuove generazioni e non solo, sia lo strumento attraverso il quale sviluppare tendenze economiche positive.
Educare non significa solo istruire, a volte l’etimologia delle parole può aiutare a vederci più chiaro e comprendere il significato più intrinseco di alcuni concetti. Educare, ha come radice latina ex-ducere, ovvero condurre fuori, far venire fuori le risorse interiori e le potenzialità di un individuo. Invece il verbo istruire, sul quale è incentrata la ricerca dell’OECD, deriva dal latino instruere, ovvero disporre, organizzare una serie di conoscenze.
Seguendo l’etimologia dei due termini possiamo notare delle piccole ma significative differenze, che ci aiutano a comprendere come, per parlare di pieno sviluppo del capitale umano, dobbiamo necessariamente considerare entrambi gli aspetti, il far venire fuori le potenzialità di un individuo e l’organizzare conoscenze. Il primo e più importante aspetto da chiarire è che i due concetti non sono posti sullo stesso piano.
L’educazione, infatti, è un processo più ampio e più lungo che contiene e comprende l’istruzione. La contiene perché è la categoria generale alla quale fa riferimento e la comprende perché la mette in relazione con l’ambiente e il contesto con i quali si confronta. L’educazione è il processo che sin dalla nascita ci permette di sviluppare le nostre skills, quelle abilità cognitive, emotive e relazionali di base, che consentono alle persone di operare con competenza sia sul piano individuale che su quello sociale. Questo ci permette di comprendere noi stessi facendo riferimento alla nostra storia personale e sociale che si sviluppa nello spazio e nel tempo, di prendere consapevolezza di quelle che sono le nostre capacità, competenze e possibilità, di ciò che abbiamo e di ciò che ci manca.
Questo profondo percorso interiore è quello che ci dà la possibilità di avere una visione più ampia di noi stessi in relazione con il mondo che ci circonda, di tirare fuori le nostre potenzialità finalizzandole ad azioni orientate verso i nostri obiettivi. In quest’ottica il processo educativo è quella risorsa che permette anche a persone con bassi livelli d’istruzione di riuscire, facendo leva sulle proprie capacità migliori, a raggiungere eccellenti risultati sia dal punto di vista lavorativo che sociale.
All’interno di quest’ampio processo l’istruzione è uno strumento attraverso il quale acquisire le competenze specifiche necessarie ad evolversi culturalmente e ad essere più pronti a confrontarsi con il contesto sociale. Assumendo questa visione più ampia, il processo educativo può essere inteso come un percorso continuo, perché segue tutto il corso della vita e complesso, perché consta di differenti fasi.
La completezza del processo educativo, infatti, prevede sì una fase di organizzazione e trasferimento di nozioni, competenze e concetti (istruzione), ma non può prescindere dal sollecitare l’alunno a lavorare sulle proprie risorse interiori per esplorare il proprio potenziale. Questo processo si potrebbe spiegare meglio con uno dei concetti cardine della pedagogia montessoriana, che si sintetizza con la frase “aiutami a fare da me”.
Gli insegnanti hanno infatti l’importante ruolo di mediatori tra il bambino, l’ambiente e la società, offrendogli spazi di esperienza e creatività. Il loro compito è quello di aiutare, consigliare, ma non sostituirsi a lui. In tal modo l’organizzazione delle conoscenze non viene proposta come uno schema rigido che resta difficilmente applicabile all’esterno del suo contesto culturale, ma come un’esplorazione delle proprie capacità e conoscenze messe in relazioni con l’ambiente che lo circonda.
La ricerca dell’OECD dimostra come che un paese che investe maggiormente nel proprio capitale umano dà un’importante spinta alla propria produttività incoraggiando l’innovazione. Le proiezioni dell’OECD però non danno indicazioni su come la scuola dovrebbe essere o su quali politiche economiche dovrebbero essere applicate, ma ci pone semplicemente di fronte al grande costo dell’inattività.
L’investimento sul capitale umano da questo punto di vista è rappresentato proprio dal processo educativo inteso come abbiamo fatto fino ad ora. Investire sulle risorse interiori del capitale umano di un paese significa tirare fuori le potenzialità di ogni persona rispetto alle sue capacità, competenze, bisogni e possibilità. Un’azione orientata in tal senso, darebbe la possibilità di avere una società più capace sia individualmente che collettivamente di comprendere cosa sta accadendo, di individuare i bisogni del momento e rispondere in maniera pronta.
Pensiamo ad esempio a problematiche come l’accettazione delle diversità all’interno di un determinato contesto sociale. La consapevolezza da parte dei membri della società in primis di se stessi, permette loro di comprendere e accogliere l’altro, con le sue risorse, capacità e potenzialità integrandosi vicendevolmente in un’ottica di vantaggio reciproco. Una società con queste risorse può riuscire a comprendere il problema e ad orientare le proprie azioni andando verso la soluzione.
Potremmo dire, infine, con le parole di Pedagogia per il Terzo Millennio, che “educare” significa offrire la possibilità acquisire quella risorsa fondamentale per vivere nella società moderna definita come prefigurazione, ovvero quella capacità che permette di proiettarsi verso il futuro e le sue possibilità, di cavalcare il cambiamento e le innovazioni tecnologiche, di vedersi cambiare nel mondo che cambia.

Fonte: www.fondazionepatriopaoletti.org

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venerdì 8 maggio 2015

I genitori difendono i figli sospesi per bullismo

I GENITORI DIFENDONO I FIGLI
 SOSPESI PER BULLISMO

Sospesi da scuola per un episodio di bullismo, durante la gita scolastica a Roma, ma difesi a spada tratta dai genitori, per i quali la punizione è esagerata. "Rischiano di perdere un anno per uno scherzo!", è la difesa dei genotori dei ragazzi, tutti minorenni. Ma la scuola, invece, continua a difendere la decisione presa: " Si tratta di una episodio grave. Siamo dovuti intervenire con fermezza per far capire quali sono i limiti, il rispetto delle norme".
Un battibecco tra "educatori", genitori e professori, che agli occhi dei ragazzi ha tutto meno che un valore educativo.
Ma ecco che cosa è accaduto. Gli studenti, 15 e 16 anni, sono in gita nella Capitale. All'insaputa dei professori, una quindicina di loro si dà appuntamento in una delle stanze dell'albergo in cui sono alloggiati. Ridono, scherzano, poi prendono di mira uno di loro, forse ubriaco.
Lo spogliano, lo depilano e lo "decorano" con delle caramelle. Il tutto viene filmato con un cellulare. La ripresa, al loro ritorno a Cuneo, dove vivono e studiano, inizia a circolare via Whatsapp. Se ne accorgono anche i professori, che convocano i genitori e fanno scattare la punizione: per quattordici di loro arriva la sospensione, il 4 in condotta per tutti gli altri, che significa perdere l'anno. E quale è stata la reazione dei genitori? Chiamare il quotidiano La Stampa e raccontare la loro versione a difesa dei propri ragazzi: "Li condannano a perdere l'anno, una rovina per molti con quello che oggi costa frequentare un liceo".
Ma è sempre giusto difendere i propri figli? Quando, invece, è necessario essere fermi e rigidi? Lo schiaffo o le punizioni davvero non possono più essere usati?
Dottoressa Tania Fiorini, psicologa e psicoterapeuta, assistiamo sempre più spesso a genitori che difendono i propri figli anche quando sbagliano. È un comportamento educativo? Come viene interpretato dei ragazzi?
Difendere i propri figli a oltranza, senza censurare il loro comportamento, anche quando questo si dimostra inappropriato, non può considerarsi un atto educativo. I minori hanno bisogno di conoscere i confini tra cosa è opportuno e cosa non lo è e aiutarli in questo processo è compito delle figure educative, dei genitori in primis. Una modalità sempre assolutoria, rischia di non far comprendere l’importanza delle conseguenze delle proprie azioni, cosa indispensabile per crescere.
Dalle reazioni di questi genitori che si scagliano verso la scuola e i provvedimenti dei professori, sembra che ci sia una verta e propria paura di rimproverare i figli...da che cosa può dipendere?
Il messaggio che dovrebbe arrivare in questi casi dovrebbe essere del tipo “Non sono d’accordo con quello che hai fatto, anzi lo biasimo, ma tu rimani sempre una persona a cui voglio bene”. Invece a volte sembra che i genitori abbiamo l’idea che censurare il comportamento dei figli e rimproverarli significhi mettere in discussione la relazione con loro.
Ma che fine hanno fatto le punizioni o anche i "sani" schiaffi di una volta? Hanno perso veramente il loro potere educativo?
Le punizioni corporali sono senz’alto da biasimare e nella nostra società non sono, giustamente, considerate un buon sistema educativo. Tuttavia tra il ceffone di un tempo e il lassismo a cui oggi capita di assistere, ci sono molte possibilità intermedie che andrebbero attivate; mi riferisco a punizioni di tipo simbolico, ma non meno capaci di incidere. Certo che, per poter essere ascoltati dai propri figli occorre che i genitori lavorino tutti i giorni per conquistarsi rispetto e fiducia. Non basta alzare la voce una volta ogni tanto, e infatti vediamo che non funziona.
I genitori che difendono i figli nascondono troppo amore o una mancanza di dialogo con i giovani che stanno crescendo?
Una difesa ad oltranza, anche quando i figli non andrebbero difesi, è indice di un errata interpretazione del ruolo educativo che invece prevede anche di esprimere disappunto e rimprovero per quello che un minore ha fatto. Questo però richiede, per prima cosa, la capacità nel genitore di reggere l’eventuale rabbia del figlio per essere stato ripreso e poi la capacità di mantenere comunque una buona relazione, e comunque un dialogo aperto.
Fonte: www.tgcom.it
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mercoledì 6 maggio 2015

Che cosa vuol dire educare?

CHE COSA VUOL DIRE EDUCARE?

Educare significa:
# Prevenire, è giocare d’anticipo investendo nei primi anni di vita
(dare al figlio un’infanzia felice ma non troppo facile).
# Essere punto di riferimento, modello identificabile perché il bambino vive a specchio.
# Desatellizare, ossia rendere autonomo il figlio.

Educare è desatellizzare, cioè rendere autonomi i figli gradualmente. Non è possedere il figlio ma tagliare il cordone ombelicale. Guardando ai nostri genitori diciamo adesso: "Grazie, mi hai dato la vita e mi hai permesso di viverla in proprio, non mi hai posseduto. Hai lasciato che io facessi la mia strada". Ciò che oggi non avviene più tanto, perché papà e mamma, soprattutto le mamme sono ammalate di mammismo, di figliolite, malattia terribile per cui pensano che il loro bambino sia sempre bambino e non lo lasciano crescere. Il fenomeno dei figli che a 35-40 anni con fidanzata e lavoro stanno ancora in casa si spiega anche con questo. Il ragazzo lavato, stirato, mantenuto sta benissimo ma non cresce. Ed i genitori hanno paura che se ne vada via.
Come si fa a desatellizzare un figlio?
1) Ci si abitua fin da quando è piccolo all’idea di perderlo perché il bambino non è nostro. Voi siete come le impalcature di un palazzo, ad un certo punto le impalcature vanno tolte. E quando i vostri figli si sposeranno non fateli abitare vicino, mandateli almeno a 3 Km. di distanza. Anche voi fate bene a tenere una certa distanza dai genitori per tagliare il cordone ombelicale. Ci sono delle mamme che continuano ad avere il controllo sulla nuova sposa e sul nuovo sposo.
2) Quando non facciamo tutto noi, ma lasciamo che questi figli facciano qualcosa. Si dice che una mamma troppo valente fa la figlia buona a niente. Molti bambini non crescono perché papà e mamma fanno tutto per loro. Il guaio è questo: quando i ragazzi vorrebbero fare, non li si lascia fare e quando diventano adolescenti non fanno più niente.
Altro esempio: a 4-5-6-7 anni hanno una voglia matta di parlare... non lo lasciamo parlare perché non abbiamo tempo. A 14 anni non ci dicono più niente.
Desatellizzare vuol dire anche non trattare il bambino da babbuino, da minorato. Desatellizzo quando parlo con lui, quando lo tratto come uno che ha il cervello in testa. Spesso capita di vedere in giro delle persone che comandano ai bambini, è difficile che facciano un ragionamento. Ragiona con il bambino perché ha tante possibilità, chiedi cosa ne pensa anche se piccolo! Noi invece comandiamo, non valorizziamo il loro cervello. Noi per parlare ai bambini usiamo 3-4 parole massimo: muoviti, sbrigati, non toccare, stai attento, lavati i denti... Questo è comandare non parlare!

# Far faticare un po’.
Educare è anche far faticare un tantino, mettendo qualche piccolo scoglio, qualche sacrificio perché solo gli scogli fanno crescere le onde. Si dice sempre Infanzia felice ma non troppo facile.

# Far diventare grande e non solo grosso
Educare è far diventare grande.
Educare è far diventare grande il figlio e non solo grosso. C’è una differenza fra grosso e grande. Chi è il più grosso fra noi? Semplice basta avere una bilancia e vedere chi pesa di più. Guai se si valutasse un bambino in base a quanto pesa!
Questo va bene per i vitelli, non per l’uomo. L’uomo non si misura in base a quanto è grasso. Chi è il più grande? La persona più grande in mezzo a noi è sicuramente la persona più onesta, più sincera, che sa amare meglio, più serena. E’ la persona che ha agganciato la vita ai valori, alla giustizia, all’onestà, all’amore, alla gioia. La persona più grande è quella che crede nei valori e li vive. Può anche non essere grossa, per niente.
Per esempio San Francesco d’Assisi (46 kg), niente grosso, quanto grande!
Ghandi un mucchio di ossa, niente grosso, quanto grande!
Madre Teresa di Calcutta, niente grossa quanto grande!
Ecco il cuore del mio discorso, che cosa vuol dire educare? Vuol dire offrire valori perché senza valori l’educare non esiste, diventa solo allevamento.
Oggi ci sono dei genitori, troppi, che sono solo genitori allevatori e non educatori. Ai figli non piace essere solo allevati. L’uomo non ama fare la bestia e ci sono dei genitori che trattano i figli come bestioline.
Guardate le domande dei genitori agli esperti di certe riviste che parlano di problemi familiari: tutte domande di allevamento, non una di educazione. "Quale merendina deve portare a scuola?" E’ la stessa cosa che dire "Quale mangime devo dare al mio coniglio?". "Quale acqua può bere?" "Il mio Bambino è allergico al pesce, come fare per dare una dieta equilibrata?". Domande di allevamento. Occorre allevare ma anche educare. Bisogna dare valori ai figli. Esempio: "Lavati i denti!" bisogna dirlo al bambino, ma siamo nell’allevamento. "Lavati le parole!", siamo nell’educazione. "Mangia, mangia, mangia!"  allevamento. "Ringrazia chi ti ha preparato da mangiare!" educazione. "Gioca!"  allevamento. "Fermiamoci un momento, facciamo un po’ di silenzio, preghiamo un poco!"  siamo nell’educazione.


# Lasciare un bel ricordo
Educare è lasciare un bel ricordo. Educare è lasciare un buon ricordo ai figli perché, comunque sia, un ricordo si lascia. È impossibile dimenticare papà e mamma. Voi sarete proiettati e presenti abbondantemente nel 2070-2090. Non voi come persone vive ma in qualcuno che vi ha dentro di sé. Quando mio nonno faceva qualcosa non vedeva che io lo stavo fotografando e che adesso nel 2001 sviluppo quella fotografia. Quando mio papà nel ‘37 sentiva Radio Londra a mezzanotte (io avevo 5 anni), lui non sapeva che quelle parole io le avrei memorizzate e che ancora oggi le tiro fuori e potrei ripeterle. Il ricordo è prevalentemente positivo.
Agli inizi del 1900 uno scrittore ha detto:
"Sapete perché Dio ha donato la memoria agli uomini? Dio ha dato al memoria agli uomini perché potessero avere le rose anche in dicembre."
Sono convinto che i vostri bambini un domani potranno dire:
"La memoria mi è stata data da Dio per ricordarmi di aver avuto un buon papà e una buona mamma."

Autore: Pino Pellegrino
Paidòs Onlus
dalla parte dei bambini, SEMPRE