Paidos Onlus

Paidos Onlus
Paidos Onlus dalla parte dei bambini,SEMPRE

venerdì 30 gennaio 2015

L'arte di educare: Lasciare un buon ricordo

13 - LASCIARE UN BUON RICORDO
E così siamo giunti alla tredicesima mossa fondamentale dell'arte di educare: "lasciare un buon ricordo".
Un buon ricordo, portato con noi fin dall'infanzia, può fare la nostra salvezza.
Ecco perché anche questa mossa non può essere affatto sottovalutata.



L'arte di essere indimenticabili!
"Il valore dei ricordi dell'infanzia" è il titolo di un libro nel quale l'autore, Norman B. Lobsens, riporta le risposte date alla domanda: "Qual è il più bel ricordo che hai dei tuoi primi anni?".
La prima risposta riportata è quella del figlio stesso dell'autore.
Dunque, alla domanda del padre, il figlio risponde: "Mi ricordo quando una sera eravamo soli in macchina e tu ti sei fermato a prendermi le lucciole". 
Il bambino aveva cinque anni.
"Perché ti ricordi di questo?", gli domanda il padre. "Perché non credevo che ti saresti fermato a prendermi le lucciole, invece ti sei fermato!".
Per un altro intervistato il più bel ricordo è "il giorno della scampagnata scolastica, quando mio padre - di solito freddo, dignitoso, impeccabile - si presentò in maniche di camicia, si sedette sull'erba, mangiò con noi e partecipò ai nostri giochi lanciando la palla più lontano di tutti. Più tardi scoprii che aveva rimandato un importante viaggio di affari per stare con me quel giorno".
Lasciare un buon ricordo! Anche questo è educare!
D'altronde, un ricordo lo si lascia sempre: in ognuno di noi vi sono tracce dei nostri genitori.
Basta sfogliare una qualsiasi biografia di uomini noti o meno noti per trovare riferimenti alla propria madre, al proprio padre.
Il poeta spagnolo Federico Garcia Lorca (1898-1936), ad esempio, ricorda: "La mattina quando suonavano le nove, mia madre entrava nella stanza dove già lavoravo e, aprendo la finestra sul balcone, diceva sempre: 'Che entri la grazia di Dio!'".
Julien Green (1900-1998), scrittore francese, ricorda: "Nella mia vita la persona che ha contato di più è stata mia madre. Mi ha dato l'amore alla vita, il desiderio di capire, la tolleranza, soprattutto la tolleranza. Infine mi ha chiuso nel Vangelo, come si chiuderebbe un bambino nel cielo".
Simpatico è il ricordo di Luciano De Crescenzo, anche lui scrittore vivente: "Mia mamma praticava il 'nulla si compra e nulla si getta'. Conservava qualsiasi cosa fosse entrata in casa e riempiva i cassetti di oggetti completamente inutili. Su una delle scatole di spaghi aveva scritto: 'Spaghi troppo corti per essere usati'".
Meno noto è Roberto D'Agostino, lookologo, ma non meno bello il suo ricordo: "Chiara era il nome di mia madre. Tagliava e cuciva reggiseni, corazze di lastex, pieni di ganci, per donne panciute. Era una donna abbastanza allegra. Il più bel ricordo di mamma Chiara? La sua tenacia. Ad essere così ostinato l'ho imparato da lei!".
Insomma, basta essere figli per ricordarci della mamma.
Lo stesso vale per il papà.
Dolce è il ricordo del padre dello psicologo Giuseppe Colombero: "Quando ero bambino mio padre si alzava molto presto per andare a lavorare. Mi ricordo che prima di uscire di casa, si affacciava alla camera dove dormivamo noi piccoli e, stando sulla porta, diceva piano a nostra madre: 'Non preoccuparti di alzarti prima dei bambini per accendere e scaldare la cucina. L'ho già fatto io'. Quando ci alzavamo nostro padre non c'era più, ma quel fuoco, quel tepore parlavano di lui: ci diceva che c'era stato e aveva pensato a noi".
Forse ci stiamo rendendo conto che un buon ricordo è l'eredità più preziosa che possiamo lasciare ai nostri figli. Un buon ricordo può decidere di un'esistenza.
Lo aveva capito bene lo straordinario scrittore russo Feodor Dostoevskij (1821-1881), il quale diceva: "Sappiate che non vi è nulla di più alto, e forte, e sano, e utile per la nostra vita a venire di qualche buon ricordo, specialmente se recato con voi fin dai primi anni dalla casa dei genitori. Uno di questi buoni e santi ricordi è forse la migliore delle educazioni. E quand'anche un solo buon ricordo rimanesse con noi, nel nostro cuore, potrebbe un giorno fare la nostra salvezza".
A questo punto viene spontanea la domanda: "Quale sarà il ricordo che i lettori lasceranno ai loro figli?".
La risposta vien dopo una considerazione: un tempo i poeti dicevano che Dio ci ha dato la memoria per poter avere le rose anche a Dicembre! Fiorivano ad Aprile e a Maggio, però, grazie alla memoria, le rose non sparivano dalla nostra mente.
Ebbene, chi ha scritto, è sicuro che se tanti genitori hanno avuto la buona volontà e l'impegno di leggere fin qui, i loro figli, domani, cresciuti, diranno: "Dio ci ha dato la memoria per poter ricordarci d'aver avuto un bravo papà ed una brava mamma!".
GLI OCCHI DEI FIGLI
Gli occhi dei figli non smontano mai di guardia e memorizzano per la vita intera.
Ecco la confessione di una figlia, ormai adulta, che ricorda alla madre ciò che lei compiva e che sempre le mandava un messaggio così forte, da costruirle l'impianto di fondo della sua educazione.
È una confessione che ci fa riflettere e porta a concludere che in ogni figlio vi è l'imprinting dei genitori. Nel bene e nel male.
"
Mamma, quando pensavi che non ti stessi guardando, hai appeso il mio primo disegno sul frigorifero e ho avuto voglia di stare a casa per dipingere.
Quando pensavi che non ti stessi guardando, hai dato da mangiare ad un gatto randagio ed allora ho capito che è bene prendersi cura degli animali.
Quando pensavi che non ti stessi guardando, hai cucinato apposta per me la torta del compleanno, ed ho compreso che le piccole cose possono essere molto speciali.
Quando pensavi che non ti stessi guardando hai recitato una preghiera ed ho incominciato a credere nell'esistenza di Dio con cui si può sempre parlare.
Quando pensavi che non ti stessi guardando, mi hai dato il bacio della buona notte e ho capito che mi volevi bene.
Quando pensavi che non ti stessi guardando, mi hai sorriso e ho avuto voglia d'essere gentile con te.
Quando pensavi che io non ti stessi guardando, io guardavo ed ora ho voluto dire grazie per tutte le cose che hai fatto quando pensavi che non ti stessi guardando!
".


UN SEME
La cosa sa di incredibile. Eppure è vera. Alla fine del gennaio 2005 un insegnante d'agraria ha piantato un seme di palma risalente al tempo di Gesù Cristo (la datazione al carbonio 14 ha evidenziato che il seme risale a 1990 anni fa, con un margine di errore di 50 anni).
Il seme è stato rinvenuto a Masada, fortezza nel deserto che sovrasta il Mar Morto.
Nessuno credeva che da esso potesse germinare qualcosa.
Invece, ecco il miracolo che ha sbalordito tutti: "Sei settimane dopo - dice l'insegnante - ho visto spuntare qualcosa dalla terra del vaso nel quale avevo piantato il seme".
Attualmente, la palma da datteri è alta circa cinquanta centimetri ed ha una ventina di foglioline.
Getta un buon seme ed i miracoli seguiranno!

Autore: Pino Pellegrino
Fonte: Il Bollettino Salesiano giugno 2014

Paidòs Onlus
dalla parte dei bambini,SEMPRE

venerdì 23 gennaio 2015

L'arte di educare: Fare festa

12 - FARE FESTA
Le nostre tredici mosse dell'arte di educare si stanno esaurendo.
Ne restano due. Forse le più simpatiche, certo così fondamentali che, qualora mancassero, renderebbero inefficaci tutte le altre. Stiamo parlando della mossa del 'fare festa' e del 'lasciare un buon ricordo'. Dedichiamo questa settimana alla prima.

Diritto alla gioia
La gioia è un diritto del figlio. Un diritto assoluto perché senza gioia la vita è invivibile.
La psicologa Elisabetta Fiorentini è sicura: "La gioia è importante come il pane e la conoscenza, se non di più!".
La gioia è un diritto del figlio perché è educativa per natura sua: ci migliora sempre, mentre la tristezza ci peggiora sempre!
Finalmente, la gioia è un diritto del figlio perché è illecito rendere acerba la vita a chi in essa è stato introdotto senza domandargli il permesso.
Insomma, stiamo facendo un discorso serio! Serio ed impegnativo. La gioia non è un optional: è un pilastro dell'educazione che ci dà un ordine tassativo: "Genitori, siate felici!". No, non stiamo prendendo in giro il lettore. Essere genitori felici è possibile, anche in tempi di crisi come i nostri.
Ci limitiamo a due strategie (molte ne tralasciamo!) che possono portare serenità a casa nostra.
Due strategie
Intanto, per prima mossa non usiamo la testa come portaspilli!
Possibile che educare debba essere un lavoro da minatore, da asfaltatore a ferragosto? È vero: educare non è facile, ma è esaltante. Nessuno stipendio milionario potrà compensare la gioia di un lavoro che, giorno dopo giorno, fa sì che chi nasce uomo diventi umano!
E poi, quando mai fu facile educare? Se avessimo più senso storico, piagnucoleremmo di meno!
Pensate: già nel quinto secolo avanti Cristo il grande filosofo greco, Socrate (469-399) si lamentava: "I nostri ragazzi amano il lusso, ridono dell'autorità, non si alzano in piedi davanti ad un anziano...".
Andiamo più indietro ancora: su un coccio babilonese, datato 2000 anni avanti Cristo, qualcuno ha scritto: "Questi giovani sono marci nel cuore, sono malvagi e pigri: dove arriveremo?".
Siamo arrivati al 2000 dopo Cristo e non fu, certo, tutto male!
Dunque buttiamo nel cestino della carta straccia i pensieri vestiti a lutto: "A scuola è un disastro!". "Non mangia!". "È allergico ai compiti". "È sempre così distratto!"...
Aveva ragione il cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012) a ricordarci che: «Niente è più opprimente che incontrare genitori che si lamentano in continuazione e non si accorgono delle meravigliose opportunità che hanno a portata di mano». Assolutamente vero! L'acqua dei piagnistei non fa muovere la nave!


La seconda strategia che ci fa meno tesi e che, di riflesso, rasserena i figli, è quella di non cadere in alcune trappole.
Trappola è il bambino da manuale.
I libri di psicologia programmano la giornata del piccolo: alle 9.05 il bagnetto; alle 14 la passeggiata; dopo un tot di minuti dal pasto, il ruttino...
"Ma il nostro fa il ruttino in ritardo... Sarà ammalato?".
"Il nostro bambino ha iniziato a parlare verso i due anni e non al termine del primo, come dice il manuale...: sarà normale?...". Suvvia: siamo saggi!
I genitori che cadono nella trappola del bambino da manuale fanno pensare alla storiella della Luna. Una sera l'insegnante di astronomia mostrava con il dito la Luna, particolarmente bella, ma gli studenti guardavano il dito, non la Luna!
I libri di psicologia sono il dito: non fermiamoci ad essi; è il bambino che conta! Vi sono genitori che hanno studiato pochissimo, ma hanno capito moltissimo. Sono quelli che hanno semplicemente guardato il bambino con tanto buon senso, senza tante ansie e preoccupazioni.
Trappola è il bambino televisivo.
Il bambino televisivo è sempre bello, pulito, non suda mai, non fa capricci, non ha bisogni, tranne quello di un po' di Nutella, del resto subito soddisfatto. Spenta la televisione, che delusione!
Il nostro bambino fa capricci, suda, urla... Occhio, signori! Il bambino televisivo è una 'bufalata', uno specchietto per le allodole, per far correre ad acquistare certi prodotti!
Trappola è il bambino del vicino.
"Lui sì che è bravo! Lui studia. Lui è educato...". Anche qui, buon senso, genitori! Il prato sempre verde del vicino potrebbe essere artificiale; la moglie che può sembrare una tacchina, in realtà è una semplice gallina! Buon senso diciamo, sì, perché ciò che noi pensiamo degli altri, lo stesso pensano gli altri nei nostri confronti. È l'irrazionalità dell'invidia!
In ogni casa vi è un capitale: è il nostro bambino normale! Godiamocelo!
Basta così. Sono cenni che, pur nella loro brevità, possono aiutare a comporre il quadro più bello del mondo: un padre, una madre e i figli che si guardano negli occhi e dicono: "Il paradiso siamo noi!".
I DIECI BAMBINI PIÙ FELICI DEL MONDO
1. Il bambino svegliato da due baci: quello di mamma e quello di papà.
2. Il bambino sudato, dopo aver tanto giocato.
3. Il bambino che si sente raccontare fiabe.
4. Il bambino che non è costretto a fare gli straordinari.
5. Il bambino abbracciato, senza essere soffocato.
6. Il bambino che qualche volta può andare in bicicletta, da solo, con il papà.
7. Il bambino affidato al Buon Dio.
8. Il bambino che non è trattato come le statuine del presepio che possono vedere la luce del sole solo quindici giorni all'anno.
9. Il bambino che non è obbligato a dimostrare d'essere un genio.
10. Il bambino che può accarezzare il gattino, toccare la neve, giocare con l'acqua, calpestare le foglie secche in autunno.


Autore: Pino Pellegrino
Fonte: Il Bollettino Salesiano maggio 2014

Paidòs Onlus
dalla parte dei bambini,SEMPRE

mercoledì 21 gennaio 2015

Non insegnate ai bambini

NON INSEGNATE AI BAMBINI
Un bambino è il più potente miracolo che possiamo ricevere in dono, onoriamolo con cura, rispettiamolo, amiamolo.

Un bambino risponde «grazie» perché ha sentito che è il tuo modo di replicare a una gentilezza, non perché gli insegni a dirlo.

Un bambino si muove sicuro nello spazio quando è consapevole che tu non lo trattieni, ma che sei lì nel caso lui abbia bisogno di te.

Un bambino quando si fa male piange molto di più se percepisce la tua paura.

Un bambino è un essere pensante, pieno di dignità, di orgoglio, di desiderio di autonomia, non sostituirti a lui, ricorda che la sua implicita richiesta è «aiutami a fare da solo».

Quando un bambino cade correndo e tu gli avevi appena detto di muoversi piano su quel terreno scivoloso, ha comunque bisogno di essere abbracciato e rassicurato; punirlo è un gesto crudele, purtroppo sono molte le madri che infieriscono in quei momenti. Avrai modo più tardi di spiegargli l’importanza del darti ascolto, soprattutto in situazioni che possono diventare pericolose. Lui capirà.

Un bambino non apre un libro perché riceve un’imposizione (quello è il modo più efficace per fargli detestare la letteratura), ma perché è spinto dalla curiosità di capire cosa ci sia di tanto meraviglioso nell’oggetto che voi tenete sempre in mano con quell’aria soddisfatta.

Un bambino crede nelle fate se ci credi anche tu.

Un bambino ha fiducia nell’amore quando cresce in un esempio di amore, anche se la coppia con cui vive non è quella dei suoi genitori. L’ipocrisia dello stare insieme per i figli alleva esseri umani terrorizzati dai sentimenti.

«Non sono nervosa, sei tu che mi rendi così» è una frase da non dire mai.

Un bambino sempre attivo è nella maggior parte dei casi un bambino pieno di energia che deve trovare uno sfogo, non è un paziente da curare con dei farmaci; provate a portarlo il più possibile nella natura.

Un bambino troppo pulito non è un bambino felice. La terra, il fango, la sabbia, le pozzanghere, gli animali, la neve, sono tutti elementi con cui lui vuole e deve entrare in contatto.

Un bambino che si veste da solo abbinando il rosso, l’azzurro e il giallo, non è malvestito ma è un bambino che sceglie secondo i propri gusti.

Un bambino pone sempre tante domande, ricorda che le tue parole sono importanti; meglio un «questo non lo so» se davvero non sai rispondere; quando ti arrampichi sugli specchi lui lo capisce e ti trova anche un po’ ridicola.

Inutile indossare un sorriso sul volto per celare la malinconia, il bambino percepisce il dolore, lo legge, attraverso la sua lente sensibile, nella luce velata dei tuoi occhi. Quando gli arrivano segnali contrastanti, resta confuso, spaventato, spiegagli perché sei triste, lui è dalla tua parte.

Un bambino merita sempre la verità, anche quando è difficile, vale la pena trovare il modo giusto per raccontare con delicatezza quello che accade utilizzando un linguaggio che lui possa comprendere.

Quando la vita è complicata, il bambino lo percepisce, e ha un gran bisogno di sentirsi dire che non è colpa sua.

Il bambino adora la confidenza, ma vuole una madre non un’amica.

Un bambino è il più potente miracolo che possiamo ricevere in dono, onoriamolo con cura.

(Giorgio Gaber “Non insegnate ai bambini”)

Paidòs Onlus
dalla parte dei bambini, SEMPRE

venerdì 16 gennaio 2015

L'arte di educare: Far faticare

11 - FAR FATICARE

Sì, anche questa è una delle mosse fondamentali dell'arte di educare che veniamo proponendo da settimane.
Nessuno ci fraintenda! Non vogliamo vedere i ragazzi soffrire, non vogliamo tornare al pane nero.
Se parliamo di fatica, è esclusivamente perché non vogliamo ingannare i nostri figli: ci sta a cuore che crescano liberi e forti.


La grande truffa
"A mio figlio non deve mancare niente; non vogliamo che soffra quello che abbiamo sofferto noi, non vogliamo che faccia la nostra vita...": è la litania che ha contagiato, si può dire, tutti i genitori ultima generazione!
Litania insidiosissima, avvelenata!
Sia subito chiaro: non vogliamo tornare al lavoro dell'operaio e del contadino aggiogati alla fatica come buoi all'aratro!
Ciò che vogliamo dire è ben altra cosa.
Vogliamo ricordare che troppo benessere finisce con l'uccidere l'essere: il benessere può ingrandire il corpo, ma non liberare l'anima, non farla divenire se stessa! Vogliamo dire, poi, che viziare è sempre ingannare! La vita non è una cuccagna; non è una crociera, non tutti i giorni è Natale o il compleanno.
Sì, non è mai stato così saggio il nostro più noto pediatra del secolo scorso, Marcello Bernardi, come quando ha detto a tutto tondo: "Il pensiero di poter evitare tutte le battaglie, le delusioni, i dispiaceri, è un pensiero folle, perché la vita non è così. Anzi, è ben diversa: la vita è fatta di combattimenti!".
Insomma, educare è anche attrezzare alla fatica!
Educare è porre ostacoli proporzionati allo sviluppo fisico e psichico del figlio.
Parliamoci chiaro: che cosa succede a far crescere il figlio con il sedere nel burro? Non succedono che guai. Basta aprire gli occhi: ecco tanti nostri ragazzi con la grinta del pesce bollito o della mozzarella. Ragazzi che alla prima difficoltà si accasciano su se stessi, come cerini esauriti che si accartocciano. Ragazzi mollicci. Friabili. Pastafrolla. Ragazzi con le ossa di cristallo. Fiacchi.
Alcuni li hanno definiti 'ragazzi-peluche'. Gli psicologi parlano di 'psicastenia': mancanza di resistenza alla fatica.
Al termine di una conferenza qualcuno ha domandato al sociologo: "Secondo lei la nostra è davvero un generazione 'bruciata'?". Il conferenziere, pronto: "Macché 'gioventù bruciata'!: 'gioventù bollita'!".
Adesso è chiaro perché parliamo di fatica. Tutto ciò che è troppo dolce e caramelloso è contro l'Uomo, contro il suo emergere.
Non è forse vero che senza gli scogli le onde non salirebbero in alto?
Parliamo di fatica perché è dalla sua assenza che nascono le quattro più antipatiche malattie della personalità.
Il conformismo: la malattia di chi non ha il coraggio di andare contro corrente, ma si intruppa e va dove lo porta la massa.
Il minimismo: la malattia di chi vive seduto, senza impegnarsi. La malattia del sei in tutte le materie, anche nella vita.
L'anguillismo: la malattia di chi sgattaiola via, si nasconde, ha paura di mostrarsi.
Il 'pilatismo': la malattia di chi si lava le mani: di chi guarda dalla finestra la storia passare per strada e lascia che decidano e vivano gli altri!
A questo punto si comprende perché lo psicologo americano William James (1842-1910) era solito esortare i suoi studenti universitari: "Fate tutti i giorni due cose solo perché vi piacerebbe non farle!". Applausi!
Il ragazzo che ha la fortuna di incontrare la pedagogia della fatica, sarà un ragazzo capace di compiere il proprio dovere, un ragazzo che tiene duro anche quando la vita mostra i denti; un ragazzo che non abbandona la partita.Un ragazzo prezioso che impreziosisce il mondo!


Bentornato sacrificio!
È pericoloso stare a lungo senza soffrire.
Una giornata senza sacrifici è una giornata di sconfitte: la volontà si allenta; il nemico (pigrizia, egoismo, animalità...) troverà più facile vincere.
Che fare, dunque?
La risposta è chiara: riaprire le porte al sacrificio!
I sacrifici possono dividersi in due categorie: i passivi e gli attivi.
I primi sono quelli imposti (per questo li chiamiamo 'passivi') dalla vita stessa: il lavoro, lo studio, i disturbi di salute, la convivenza umana, le condizioni climatiche...
I secondi sono i sacrifici cercati, voluti, preparati da noi stessi.
Qualche esempio?
Saltare giù dal letto elettricamente, al primo squillo della sveglia; mangiare le rape che non piacciono; bere un caffè amaro; soffrire il mal di denti senza dirlo a nessuno; aspettare che tutti si siano serviti; praticare il digiuno televisivo; non fare telefonate chilometriche...
Forse qualcuno potrà anche sorridere.
Eppure son proprio questi preziosi sacrifici che tengono a galla la volontà, perché possa sopportare il prezzo del vivere umano.
Nessuno sorrida: il sacrificio non è un'idea che poteva valere prima di Freud. Anche dopo Freud deve restare nella nostra pedagogia.
• Deve restare perché il comodismo è un inganno, come abbiamo detto: la vita non è zucchero filato.
• Deve restare perché "chi non sa negarsi qualcosa di lecito, difficilmente potrà evitare le cose proibite" (Toth Thiamer, scrittore ungherese vivente).
• Deve restare perché (la riflessione è finissima!) "una grande felicità ha bisogno di un grande ostacolo" (Robert Musil, scrittore austriaco: 1880-1942).
Tra gioia e sacrificio, infatti, vi è un rapporto di stretto gemellaggio. La felicità nasce sulla pianta che ha radici a forma di croce, si dice in Africa.
D'altronde non è forse vero che una vita troppo facile diventa una vita noiosa? Dobbiamo dare ragione a Gandhi (1869-1948): "La storia del mondo sta lì a dimostrare che non vi sarebbe alcunché di romantico nella vita, se non esistessero i rischi".


LE CITAZIONI
"Troppo benessere genera il malessere. Genera i gaudenti scontenti. Genera il disagio dell'agio" (Paolo Crepet, psichiatra).
"Prendete un circolo, accarezzatelo: diventerà vizioso" (Eugène Ionesco, commediografo romeno: 1909-1994).
"La mamma troppo valente fa la figlia buona a niente" (Proverbio).

LA VITE E IL POTATORE
Un giorno la vite disse al potatore: "Perché mi stai venendo incontro con quelle forbici? Forse mi vuoi potare come si faceva al tempo d'una volta? Buttale via: non sai che adesso i tempi sono cambiati!?". "Già, rispose il padrone: a pensarci bene non hai torto: non siamo più ai tempi d'una volta!". E poiché i tempi erano cambiati, non la potò. E così in autunno la vite non ebbe uva. Come al solito, vennero gli amici per assaggiare il vino nuovo. "Non c'è vino nuovo. I tempi sono cambiati!" disse, sconsolato, il proprietario della vigna.

Autore: Pino Pellegrino
Fonte: Il Bollettino Salesiano aprile 2014

Paidòs Onlus
dalla parte dei bambini,SEMPRE

mercoledì 14 gennaio 2015

Paura di crescere

PAURA DI CRESCERE

"Di fronte alla sfida dell'adultità, molti giovani fanno fatica a superare la paura di crescere, sperimentano con sofferenza tutta l'incertezza e la precarietà della loro condizione e dilazionano il superamento di quella "linea d'ombra" che separa la spensieratezza dell'adolescenza dalla condizione inedita dell'essere adulti.


"Dove sarò domani? Chi sarò? Avrò il coraggio di prendere decisioni significative per la mia vita e di assumere la guida di quella nave che solo io posso condurre per mare?". Domande ricorrenti, martellanti, comuni a tanti giovani che, nel passaggio cruciale verso l'adultità, sperimentano la paura di prendere il largo, l'ambivalenza di una condizione carica di incertezza e, al tempo stesso, di aspettative, il timore e insieme il desiderio di mettersi alla prova, di testare le proprie competenze esistenziali, di sentirsi unici artefici del proprio destino. Farsi carico di scelte impegnative e accettare la responsabilità di portarle avanti fino in fondo, a volte, può spaventare. Significa fare un salto nel vuoto, prendere coscienza della necessità di cambiamenti importanti, decidersi finalmente a varcare quella "linea d'ombra" che separa la spensieratezza dell'adolescenza dalla condizione inedita dell'essere adulti.
In una società in cui sembra ormai prevalere l'etica della superficialità e del disimpegno, quello della responsabilità appare come un valore esigente, controcorrente. È forte la tentazione di adeguarsi al clima generale, rifuggendo da scelte definitive o troppo impegnative, optando per un'esistenza a responsabilità limitata, fatta di compromessi, di decisioni revocabili, di continue dilazioni. Certo, per molti giovani, la precarietà di un'esistenza vissuta alla giornata, senza possibilità di fare progetti a lungo termine, è frutto di una scelta obbligata, amara conseguenza dell'assenza di certezze sul piano economico e professionale come su quello affettivo ed esistenziale. Si è così abituati a vivere in bilico sul filo di un presente incerto e provvisorio che la capacità di guardare al futuro, oltre l'orizzonte limitato del contingente, finisce con l'atrofizzarsi sempre più, soffocata dal disincanto, dalle frustrazioni, dalla logica del "così fan tutti".
Ma spesso la difficoltà oggettiva di assumere impegni duraturi può diventare un alibi per rifuggire dalle proprie responsabilità, per dilazionare una scelta di vita che si avverte come irreversibile o troppo gravosa, per ritardare il passaggio verso l'adultità, rimanendo indefinitamente nel limbo di un'eterna adolescenza.
Farsi carico della responsabilità del proprio futuro, accettare di correre il rischio di mettersi in gioco può fare paura. Eppure è anche la manifestazione più alta della propria libertà, di un protagonismo e di una capacità di autodeterminazione che soli danno dignità all'esistenza umana, della tensione verso un essere di più che costituisce lo stimolo più forte a lasciarsi alle spalle ogni incertezza e a levare finalmente l'ancora per partire alla scoperta di «questa realtà difficile da interpretare, ma bella da esplorare».


La linea d'ombra, la nebbia che io vedo a me davanti
per la prima volta nella vita mia mi trovo a saper quello che lascio
e a non saper immaginar quello che trovo.
Mi offrono un incarico di responsabilità
portare questa nave verso una rotta che nessuno sa
è la mia età a mezz'aria in questa condizione di stabilità precaria...
... Il pensiero della responsabilità si è fatto grosso
è come dover saltare al di là di un fosso
che mi divide dai tempi spensierati di un passato che è passato
saltare verso il tempo indefinito dell'essere adulto
di fronte a me la nebbia mi nasconde la risposta alla mia paura:
cosa sarò? dove mi condurrà la mia natura?
Arriva il giorno in cui bisogna prendere una decisione
e adesso è questo giorno di monsone
col vento che non ha una direzione
guardando il cielo un senso di oppressione
ma è la mia età dove si sa come si era e non si sa dove si va...
... Mi offrono un incarico di responsabilità
non so cos'è il coraggio, se prendere e mollare tutto
se scegliere la fuga o affrontare questa realtà
difficile da interpretare, ma bella da esplorare
provare a immaginare cosa sarò quando avrò attraversato il mare.
Mi offrono un incarico di responsabilità
domani andrò giù al porto e gli dirò che sono pronto a partire
getterò i bagagli in mare, studierò le carte e aspetterò di sapere
per dove si parte, quando si parte
e quando passerà il monsone dirò: "Levate l'ancora, dritta avanti tutta
questa è la rotta, questa è la direzione, questa è la decisione!".

(Jovanotti, La linea d'ombra, 1997)

Autrice: Alessandra Mastrodonato
Fonte: Il Bollettino Salesiano gennaio 2014

Paidòs Onlus
dalla parte dei bambini, SEMPRE

venerdì 9 gennaio 2015

L'arte di educare: Saper dire 'no'

10 - SAPER DIRE 'NO'
Nella serie delle mosse fondamentali dell'arte di educare non può mancare la mossa del saper dire 'no'! Ne siamo così convinti che ogni figlio dovrebbe dire ai genitori: "Se mi volete bene, non ditemi sempre 'sì'!".


QUATTRO MOTIVI
I 'no' ci vogliono almeno per quattro motivi.
Intanto perché danno sicurezza.
Avvertono il figlio che vi sono dei limiti, dei paletti: cose che si possono fare, altre che sono proibite. Ora, tutto ciò tranquillizza: toglie dall'insicurezza del non saper come agire, cosa fare.


I 'no' irrobustiscono l'io.
Senza nessuna esperienza dei 'no', al primo scoglio il ragazzo rischia il naufragio. È questa una delle ragioni fondamentali della necessità del 'no'. Non è forse vero che abbiamo figli sempre più friabili, ragazzi con la grinta della mozzarella? È tempo di smetterla d'essere troppo arrendevoli!
I 'no' avvertono che vi è un'autorità.
Una cosa è assodata: il rapporto educativo deve essere asimmetrico.
In fondo è il figlio stesso a volerlo: a lui serve una persona autorevole, non un amico o un camerata. Il 'no' detto con arte è una delle più chiare espressioni dell'autorevolezza.


Finalmente i 'no' rendono più simpatico il figlio.
Un ragazzo al quale è sempre permesso di fare quello che gli pare e piace, sarà incapace di adattarsi agli altri, potrà diventare un incivile, un rompiscatole, un piantagrane.
Insomma è evidente l'importanza del 'no'. Importanza che ci impegna a sfruttarlo al meglio.
LO STILE DEL 'NO'
Perché il 'no' sia utile, deve essere detto con stile, deve, cioè avere alcune caratteristiche.


Non urlato.
Se gridato, il 'no' potrebbe essere interpretato come dipendente dal nostro umore del momento e non già come una decisione presa per impedire qualcosa che, comunque, non si deve compiere, indipendentemente dal nostro 'raptus'.


Dosato.
Quando i 'no' sono troppo frequenti perdono efficacia, come le leggi. Perché in Italia le leggi si infrangono così di frequente? Una ragione è anche questa: perché sono troppe. Mentre in Francia ed in Germania sono sui settemila, da noi superano le centocinquantamila! Oltre a ciò, è bene che il 'no' sia dosato perché il censurare troppo i figli rischia di frustrare la loro creatività e di renderli più insicuri.


Giustificato.
Il figlio deve sapere che le nostre proibizioni hanno una ragione. Giustificando i 'no' lo illuminiamo, lo orientiamo, lo facciamo crescere. È chiaro che la motivazione deve rispettare la maturazione raggiunta dal figlio. Al piccolo di tre anni diremo: "Non prendere il coltello: taglia!". Al ragazzo adolescente tentato dall'alcol spiegheremo che dove entra il bere esce il sapere; diremo che solo chi è poco saggio si lascia imbottigliare dal vino!


QUALI 'NO'?
È impossibile, in ogni caso, fare l'elenco completo dei 'no' da dire ai figli. Ci limitiamo ai quattro che ci sembrano i più urgenti.
No alle mode.
Dove è scritto che tutti i ragazzi debbano avere lo stesso zainetto, che a Natale tutti debbano ricevere montagne di regali? Ha tutte le ragioni lo psichiatra Fulvio Scaparro ad essere così deciso: "Mamme e papà, imparate dai salmoni che vanno contro corrente! Liberatevi dai copioni!".


No al servizio.
Perché la mamma deve continuare ad insaponare il figlio, ad allacciargli le scarpe ed il papà a sbucciargli la mela? Qualche anno fa il sociologo Francesco Alberoni ha lanciato un messaggio: "Basta con i vizi ai figli! Se la cavino da soli!". Tutti gli hanno battuto le mani. E se fossimo d'accordo anche noi?
No al cuore di panna e all'indulgenza plenaria.
Concedere tutto al figlio è tradirlo: non si può vivere in pantofole! Concedere tutto al figlio è preparare un infelice: "Il passero ubriaco trova amare anche le ciliegie", recita il proverbio.


No alle continue richieste.
"Me lo comperi?". "Voglio questo!". "Dammi quello"...
Ad un certo punto bisogna dire 'No!'. "Ne hai abbastanza!". "È inutile insistere!". "Sarebbe troppo". "Questo non è per nulla necessario!"... Parole sapienti. Parole benefiche. Parole che forgiano un uomo capace di stare in piedi anche quando la vita mostra i denti.
CHIARO E TONDO!
Ormai, dopo tanta pedagogia permissiva, tutti ammettono che i 'no' sono preziosi.
Qualora sparissero, non succederebbero che dei guai.
"I 'no' aiutano a crescere" ci manda a dire la psicologa Maria Luigia Pace.
"Un bambino abituato a delle regole è sicuramente un bambino, un ragazzo, un adolescente più capace di far fronte alle difficoltà", ci assicura lo psichiatra Giovanni Bollea.
Al contrario, un bambino abbandonato a se stesso diventa "un rompiscatole, un adulto instabile, nevrotico, infantile" (Silvano Sanchioni, assistente sociale); "un bambino non abituato, fin dall'inizio della vita, a limitarsi, può diventare un piccolo despota" (Renata Rizzitelli, psicologa).
Che cosa vogliamo di più per convincerci che i 'no' sono un pilastro della crescita, come, d'altronde, i 'sì' di cui parleremo il prossimo mese?


CITAZIONI D'AUTORE
• "Un genitore deve saper dire no ad un figlio, se gli vuole bene, altrimenti con 'fai come ti pare' si rischia di togliergli i necessari anticorpi, psicologici. Le regole, i no sono come i paracarri ai lati della strada, sono punti di riferimento. Non debbono cambiare di posizione, non possono decidere di esserci o non esserci.
Che patetici quei genitori che fanno gli amici dei figli. Un padre deve essere padre, altrettanto una madre; è già così difficile fare i genitori, ci mettiamo a fare anche gli amici, per confondere loro ancor più le idee?
" (Paolo Crepet, psichiatra).
• "Sono contento di non essere stato viziato. Considero una sventura avere dei privilegi nell'infanzia. La mia infanzia è stata dura, non ho conosciuto il benessere, e trovo che nascere in una situazione di sana povertà sia il miglior bagaglio che si possa dare ad un bambino" (Carlo Rubbia, premio Nobel per la Fisica, 1984).
• "A furia di spianare la strada al bambino si rischia di esporlo a dei contraccolpi emotivi il cui esito è sempre più spesso la depressione" (Massimo Gramellini, scrittore).

Autore: Pino Pellegrino
Fonte: Il Bollettino Salesiano febbraio 2014

Paidòs Onlus
dalla parte dei bambini,SEMPRE

mercoledì 7 gennaio 2015

L'importanza del padre per la felicità dei figli

L'IMPORTANZA DEL PADRE PER I FIGLI
Consigli utili

Sono assolutamente convinto che ciò che lega una mamma ad un figlio, sia senza dubbio qualcosa che non può essere semplificato in spiegazioni tecnico-scientifiche. C’è qualcosa che va assolutamente oltre. La vita nella vita; un cuore che batte li dove c’è un altro cuore che batte. Una simbiosi di pulsazioni, nutrizione, emozioni, che si ripete ininterrottamente per nove mesi. Un embrione che diventa feto, poi, bimbo. Una vita che inizia e diventa autonoma quando si “stacca dalla vita”.
Si stacca…
Questo termine è ben preciso,indica un nuovo inizio. Da questo momento, la dipendenza del nascituro si trasforma. La mamma non è più sola.


Il neonato può contare sulla costante presenza oltre che della mamma, anche del papà.
Ecco che il quadro è completo: il seme, la terra, il frutto. Sono questi i tre elementi indispensabili perché si possa parlare di completezza. Se qualcuno dovesse chiedermi quanto sia importante la figura di ogni genitore nella vita di un figlio, non azzarderei minimamente a cercare di individuare quale delle due abbia più peso. Ho parlato della nascita come un distacco; infatti quello è il momento esatto in cui si interrompe quella simbiosi, quel rapporto e contatto prioritario che ha caratterizzato i nove mesi di gestazione.

Ma chi non ha mai sentito dire da una mamma:  “Solo io posso capire mio figlio!”.
Solo io. Mio figlio.

Ecco, fisicamente il distacco è avvenuto. Per il nascituro e per il papà è così; per la mamma, accettarlo diventa un po’ più difficile, spesso impossibile. Quel senso di protezione naturale, quell’attenzione necessaria soprattutto nei primi anni di vita di un figlio, si trasformano facilmente, spesso inconsapevolmente (…) in senso di proprietà esclusiva. La mamma accudisce; la mamma da il nutrimento; la mamma lava, veste, si preoccupa di tutto ciò che riguarda il figlio. Potrei continuare all’infinito l’elenco di cose a cui anteporre sempre “la mamma”.
Ma il papà…?

All’atto del concepimento, non erano in due i futuri genitori? Vogliamo considerare i papà come semplici “inseminatori” che una volta espletato il proprio compito, possono tranquillamente essere riposti in un angolo, in un armadio o semplicemente davanti ad un televisore? Per esperienza, vi dico che non è così: sono convinto che esistono delle eccezioni, ma queste vanno considerate anche se si parla di mamme, ma la maggior parte dei padri, sono volutamente messi fuori gioco dalla presenza ossessiva delle stesse nella vita dei figli.
Ricordate…? “Solo io”; “Mio figlio”. Sono queste le due principali affermazioni che devono far riflettere. Sono due paroline, pronunciate con una tale convinzione e naturalezza che escludono categoricamente dalla vita di un figlio chiunque altro. Padre compreso. Vi assicuro che è l’errore più grande che una mamma possa fare. È la convinzione più sbagliata che si possa avere. È il danno più grosso e grave che si possa arrecare alla crescita di un bambino. Non è questo l’unico modo che una mamma deve conoscere per infondere amore ai figli. Sono convinto che susciterò qualche malcontento se vi dico che questo potrebbe non essere vero amore, bensì egoismo.

“L’ho fatto io!”: un’altra bruttissima frase che esclude ogni dubbio di esclusività. “L’ho fatto io, è figlio mio!” Che brutta frase! Quanto è frustrante per un padre sentire questa frase e dannoso per l’individualità di un figlio. Non ho assolutamente nessun dubbio sulla genuinità del bene di una mamma, ma sappiate che già prima che avvenga quel “distacco”:
- L’amore di un padre è assolutamente pari all’amore che nutre la donna con cui quel figlio è stato concepito.

- L’unilateralità non è il canale migliore per garantire ad un figlio, quell’amore e quelle attenzioni di cui ha bisogno. È bello sentirsi mamma, come è bello potersi sentire papà.

- Credetemi, per un figlio, potersi rivolgere all’uno o all’altro genitore, come fosse la stessa cosa è il modo migliore per crescere serenamente, ma soprattutto nel modo più equilibrato possibile. Facciamo in modo che sia così! È questo il modo migliore per essere pronti, un giorno a lasciare che il proprio figlio si senta libero di esprimere la volontà di essere parte attiva della società, senza che nessuno ostacoli il suo volo…
Autore: Mario Cinieri

Paidòs Onlus
dalla parte dei bambini, SEMPRE

venerdì 2 gennaio 2015

L'arte di educare: Guardare il figlio

9 - GUARDARE IL FIGLIO

Da settimane veniamo proponendo le principali mosse dell'arte di educare.
Siamo partiti dal "seminare", siamo passati all' "aspettare", al "parlare", all' "amare"... ed eccoci al "guardare": guardare il figlio.
Una mossa che, in prima battuta, può sembrare di poco conto! In realtà gli occhi hanno un potere eccezionale!


L'arte del guardare il figlio.
Il contatto visivo è una delle più potenti vie di educazione (o diseducazione).
Gli occhi parlano più forte della voce: sono il canale attraverso il quale trasmettiamo i nostri pensieri, le nostre emozioni.
Gli occhi possono trasmettere rabbia, tristezza, sdegno, disprezzo, freddezza, oppure calore, tenerezza, accoglienza, gioia, speranza, conforto, amore (lo sanno bene i fidanzati che talora sembrano mangiarsi con gli occhi!).
Guardare il figlio è come dirgli: "Tu esisti per me, tu sei entrato nei miei pensieri, nei miei affetti".
Nei campi di concentramento tedeschi era severamente proibito ai prigionieri di guardare negli occhi i loro carcerieri. Lo sguardo avrebbe potuto intenerirli!
Insomma, una cosa è certa: se guardassimo i figli almeno come guardiamo il bagno e l'automobile, avremmo ragazzi meno tristi, meno infelici, meno delusi della vita.
"Se guardassimo...": è una parola!
Si tratta di guardare con arte, cestinando gli sguardi sbagliati, per scegliere esclusivamente, gli sguardi buoni. Sguardo sbagliato è, ad esempio, lo sguardo poliziesco che tacchina in continuazione il figlio senza mai lasciarlo libero di respirare, di muoversi, di uscire, di scendere in cortile per giocare... Sguardo sbagliato è lo sguardo minaccioso dei genitori che mirano di più a farsi ubbidire che a convincere. Terzo sguardo sbagliato è lo sguardo indifferente. Questo è il peggiore in assoluto! L'indifferenza è la bestia nera di tutti i figli del mondo! La pericolosità dello sguardo indifferente sta nel fatto che può azzerare quella grande forza cosmica che è la voglia di vivere! Lo sguardo indifferente manda a dire al figlio: "Tu sei nessuno". Messaggio che taglia le radici alla vita! A ben pensarci, non è forse vero che ha senso essere al mondo solo se si è per qualcuno? Davvero: gli sguardi sbagliati sono l'inverno; gli sguardi buoni sono la primavera. Sguardo buono è lo sguardo generoso che vede nel figlio ciò che nessuno vede. Sguardo buono è sguardo sempre nuovo: vede che il figlio cambia e quindi si adatta alla sua crescita (vi è un abisso tra il bambino e l'adolescente: trattare il figlio da perenne bambino è uno sbaglio da cartellino rosso!). Sguardo buono è lo sguardo ottimista, incoraggiante, luminoso: lo sguardo che dà valore al figlio e tifa per lui. Aveva tutte le ragioni il filosofo francese Louis Lavelle (1883-1951) a sostenere che "il maggior bene che possiamo fare agli altri non è comunicare loro la nostra ricchezza, bensì rivelargli la loro". Fortunati i figli che hanno genitori con gli occhi simili (per quanto è possibile!) a quelli del 'facchino di Dio' don Orione (1872-1940) che, come ricorda il professor Enrico Medi (1911-1974) "ti bruciavano l'anima e ti entravano dentro come la luce esce dagli angeli". I genitori con tale sguardo hanno la patente pedagogica a punti pieni!


PERLE
"Amare qualcuno significa essere l'unico a vedere un miracolo che per tutti gli altri è invisibile" (François Mauriac, scrittore francese).
"Alcuni uomini trasformano un puntino giallo in sole, altri il sole in un puntino giallo" (Pablo Picasso, pittore spagnolo).
"A me basta guardare. Gli occhi trovano sempre la loro pastura ovunque" (Lalla Romano, scrittrice).
"Gran parte dei difetti dei fratelli sono nella retina dei nostri occhi" (Igino Giordano).
Gli uomini sono strani! Costruiscono soffitti bellissimi e poi camminano sui pavimenti!
Se chiudiamo gli occhi per un minuto, perdiamo sessanta secondi di luce.

GLI OCCHI E LE PALPEBRE
Un giorno un discepolo si macchiò di una grave colpa.
Tutti si aspettavano che il maestro lo punisse in modo esemplare.
Ma passò un anno ed il maestro non diede segno di reazione.
Allora un altro discepolo protestò: "Non si può ignorare ciò che è accaduto. Dopo tutto, Dio ci ha dato gli occhi per vedere!".
Il maestro replicò: "È vero, ma ci ha anche dato le palpebre per chiuderli!".

IL LADRO. L'ARTISTA. L'AVARO. IL SAGGIO
Una volta un ladro, un artista, un avaro e un saggio che viaggiavano insieme, scoprirono una grotta tra le rocce.
Il ladro disse: "Che splendido nascondiglio!".
L'artista: "Che posto splendido per dipingere murali!".
L'avaro: "Che splendido forziere per un tesoro!".
L'uomo saggio disse semplicemente: "Che bella grotta!".
Il grande psicanalista austriaco Bruno Bettelheim (1903-1990) ammoniva: "Non puntate ad avere il bambino che piacerebbe a voi. Abbiate rispetto per ciò che il bambino è!".

Autore: Pino Pellegrino
Fonte: Il Bollettino Salesiano gennaio 2014

Paidòs Onlus
dalla parte dei bambini, SEMPRE