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mercoledì 17 giugno 2015

Perché non ho denunciato

PERCHÉ NON HO DENUNCIATO

Qualche giorno fa è stato  il Denim Day, la giornata istituita 15 anni fa dall'associazione Peace Over Violenze in risposta alla sentenza della Cassazione che in Italia assolse un uomo dallo stupro di una ragazza perché indossava un paio di jeans. E in questa giornata abbiamo lanciamo la sfida di pubblicare articoli con lo stesso titolo: Perché non ho denunciato.

E cominciamo facendolo in prima persona sui blog

Nadias (Fatto)
Bettirossa (il Manifesto)
Lipperatura (Repubblica)
La27ora (Corriere della Sera)
Il corpo delle donne 

L’iniziativa è promossa da un gruppo di giornaliste che invitano tutte le altre, giornaliste e blogger, a fare proprio il titolo e l’immagine. E invita tutte le altre donne a raccontarsi rispondendo a: Perché non ho denunciato

Le adesioni che stanno arrivando a #Per­ché­No­n­Ho­De­nun­ciato  e 365 #DenimDay
Gior­gia Vez­zoli su Vita da stre­ghe
Cri­stina Obber su Non lo fac­cio più
Claudia Sarritzu su Globalist.it
Giulia Vola su Magazine delle Donne
Angela Gennaro su Huffington Post
su Twitter: #PerchéNonHoDenunciato #DenimDay

Leggete le loro storie, questa è la mia
Mica posso rovinare una famiglia. E poi come guardo sua moglie. Lei lo sa, se è successo con me, sarà già successo altre volte, lei lo sa e non vuole vedere. No, e poi cosa dico in tribunale? Dormivo. Non posso montare tutto sto casino, tutte ‘ste famiglie convolte. Ma che dico, proprio io a “salvare le famiglie”. Quella notte giravo per Milano in auto come una pazza… Ero scappata, avevo preso l’auto e l’unica cosa che sapevo fare era girare e parlarmi. Come, proprio io a pormi il dubbio? Denuncio? Ebbene sì. Proprio a me era successo e proprio io non sapevo cosa fare. Mi ero svegliata in salotto. Avevo aperto gli occhi e la sua faccia sulla mia. Peggio, le mani avevano raggiunto gli slip. Il tempo di capire. Non so quanto ho impiegato. Non lo so proprio. Immagino un fulmine, forse alcuni interminabili secondi per alzarmi, prendere chiavi e borsa. E correre. Dove?
L’auto mi è sembrata il posto dove pensare. Non correvo. Giravo piano. Parlandomi. Non so se a voce alta. O con la voce della mente, quella che uso per raccontarmi storie. Costruivo immagini, situazioni, parole. Mi raccontavo in tribunale, a dire che sì, mi capita di addormentarmi, anche a casa di amici. A volte crollo per stanchezza o perché le notti prima ho lavorato. E poi che altro avrei potuto dire. Amici, che frequento normalmente. Certo. Quasi parenti, i genitori reciproci si conoscono, abbiamo mangiato insieme tante volte. Ogni volta che vedo i miei mi chiedono come stanno, come stanno i bambini, come stanno il papà e la mamma. Consenziente? E lì avrei insultato avvocati e giudici. Certo, avevo una gonna. Bianca, stretta, un tubino bianco, le gambe abbronzate. Sul divano la gonna sale? E allora, giudice si rende conto di che sta dicendo? La gonna sale e quello ci infila le mani. Giusto? Consenziente perché l’ho lasciato andare avanti? Giudice, dormivo. Lei è una donna libera, diciamo disinvolta… E allora? Quanto avrei retto quelle domande prima di sclerare. Sclerale guardando la mia amica, la moglie. Cosa avrebbe fatto, detto? Quanto l’avrei ferita? Eravamo “troppo” intimi? Certo giudice, noi zitelle libere e disinvolte abbiamo molte relazioni intime, qualcuna sentimental-sessuale e poi tanti rapporti intimi, le chiamano famiglie sostitutive. Sesso? Lo faccio, certo. Quando voglio io.
Sono arrivata a casa che era già luce, ma senza una decisione. Una doccia. Lunghissima e con il crine che non uso mai. Dovevo lavare, lavare me e quanto mi era capitato. Non so a che punto arriva una telefonata. Un amico artista, di passaggio a Milano. Mi sente stravolta. E comincio a raccontare, dire tutto quello che mi ero detta nella notte. Sono certa, però, che della denuncia non ho parlato. Il dubbio non era archiviato. Restava una lacerazione, ma assente dalle parole. Un po’ al telefono e poi al tavolino di un bar sottocasa. L’amico, pure l’altro era un amico, oh se lo era, mi fa parlare, ripete che sono una tosta. Mi dice la sua stima. Un elenco di pregi sulle mie forze. E mi è chiaro oggi come servissero in quel momento. Non abbastanza per andare in questura. Mi racconta qualche suo piccolo guaio, i desideri futuri. Parliamo del suo ultimo progetto, ritratti alla gente qualunque accompagnati alle loro storie, in poche righe. Erano i primi anni del 2000. E l’idea di entrare nell’umanità del suo cosmo è arrivata poco dopo il fatto.
Sono entrata in Paese reale da qui all’eternità di Piermaria Romani, nella ricostruzione di un paese reale come espressione dell’arcano contatto cosmico che tutti lega… con i nostri lutti, le nostre rabbie, amori, paure. Non ho denunciato il fatto. A che punto lo avrebbero considerato stupro? Quanto avrei dovuto spogliarmi dei mie orgogli perché venisse riconosciuto? Quanto avrei scassato gli equilibri di altre persone? Non ho denunciato alla questura, l’ho fatto dalla Biennale di Venezia, da Palazzo Reale, da muri di festival dove sono passate migliaia di persone. Il mio volto, il mio nome, quello che mi era successo, tra tanti altri. E senza nessuno che mi giudicasse. Una denuncia corale. Ma silenziosa. Non è giusto, lo so. È bastato alle mie ferite. Non alla collettività e alla civiltà.

 

FONTE: http://27esimaora.corriere.it/articolo/perche-non-ho-denunciato/?cmpid=SF020103COR

 

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