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mercoledì 24 dicembre 2014

Un presepio per educare

Un presepio per educare


Fare il presepio non è un gioco da bambino
 
Fare il presepio è costruire uno straordinario 'Trattato visivo di pedagogia'.
No, non scriviamo sopra le righe! Abbiamo tutte le carte in regola per provare che il presepio racchiude in sé alcuni pilastri fondamentali dell'arte di educare.
• Intanto il presepio
evoca emozioni e gioie intense.
Preparare il presepio in famiglia, tutti insieme, è un'esperienza di vita affettiva, di calore umano che non ha riscontri in nessun'altra attività, come, ad esempio, nel giocare, nel biciclettare... In una società sempre più fredda come la nostra, un sussulto di sentimenti è, immediatamente, uno dei primi benefici del presepio!
• Il presepio
sveglia il lato buono che dorme in ogni uomo, anche nel più slabbrato!
Solo chi è mite, come san Francesco, chi è in pace con se stesso, può fare il presepio.
• Ancora. Il presepio
riconcilia la famiglia, oggi sempre più disgregata.
• Non basta. Il presepio può rappresentare
una scuola di bellezza.
Il che non è poco: il bello è l'introduzione al buono!
Li avete contati?
Quattro preziosi contributi pedagogici nascosti nel presepio!
Ma andiamo più a fondo.
Il presepio
ricorda una nascita, una nascita assoluta: quella di Cristo.
Dunque il presepio
tiene viva l'idea del 'venire alla luce', idea oggi troppe volte dimenticata con pesanti conseguenze negative.
Aveva ragione il poeta cileno Pablo Neruda (1904-73) a dire che "
è per nascere che siamo nati!".
Sulla stessa linea era lo psicanalista tedesco Erich Fromm (1900-80) quando sottolineava che "
il primo compito della vita è dare alla luce se stesso!".
Insomma, il Natale è un invito a crescere: a pensare di più, ad amare di più, a volere di più...
Attenzione!
Il bello del presepio sta qui: non solo ricorda il dovere di nascere, ma indica anche quali sono i segreti della nostra vera nascita umana.
Tutti sanno che sono i Valori che fanno diventare 'grande' l'uomo e non solo 'grosso'.
Ebbene, basta entrare anche nel più semplice presepio di carta pesta per scoprire una manciata di Valori:
• il valore delle
cose semplici,
• il valore dell'
essenziale,
• il valore del
silenzio,
• il valore della
pace,
• il valore della
gioia,
• il valore della
tenerezza.
Tutti Valori che fanno sì che chi nasce uomo, diventi umano!
A questo punto nessuno darà più dell'esagerato ad uno dei più impegnati ed intelligenti sacerdoti del secolo scorso, don Primo Mazzolari (1890-1959) quando un giorno ha detto a tutto tondo: "
Se la Terra vorrà avere ancora uomini liberi, se vorrà avere uomini giusti, se vorrà avere uomini che sentono la fraternità, bisogna che non dimentichiamo la strada del presepio".
Davvero: il presepio va protetto, va difeso, va valorizzato!
Il noto regista Ermanno Olmi (1931) è sempre stato affezionato al presepio ("
il primo spettacolo della mia vita!"). Ogni anno, immancabilmente, lo costruiva in casa con la moglie Loredana e con i figli.
Un anno, quando ormai questi erano grandi, per vedere come avrebbero reagito, disse con aria indifferente: "
Stavolta lasciamo perdere: non lo facciamo il presepio, al massimo un alberello di Natale!".
Al che i figli - il ragazzo con la barba e la ragazza donna - subito reagirono: "
Eh, no! Il presepio si fa, non si può non fare!".
Il presepio si fa, non si può non fare: è troppo prezioso!
Salverà non solo il Natale cristiano, ma anche i più alti valori del vero umanesimo.


 
STELLE DI NATALE
• "Ho ancora nostalgia del presepe. Con mia sorella ed i suoi figli, ogni anno, partecipo alla preparazione di un presepe in tutto simile a quello di casa mia" (Renzo Arbore).
• "Se c'è un sogno che coltivo, questo sogno è di entrare nella memoria dei miei figli associato all'immagine di un Natale di tenerezza e di amore" (Vittorio Gassman).
• "Natale è più che un racconto: è una carezza, è un abbraccio, è un sorriso, è un cibo" (Luigi Santucci).
• Un giorno un'insegnante, durante la lezione sulle invenzioni moderne, domandò ai bambini: "Chi di voi mi sa dire qualcosa di importante che non esisteva cinquant'anni fa?". Un piccolo alzò la mano ed esclamò: 'Io!'.
Risposta perfetta!
I bambini sono importanti! Dio stesso ha iniziato da bambino!
Il primo ministro inglese Winston Churchill (1874-1965) era solito dire che "
non vi è, per nessuna comunità, investimento migliore che mettere latte nei bambini".

L'ASINO ED IL BUE
Mentre Maria e Giuseppe stavano andando a Betlemme, l'angelo radunò gli animali per scegliere i più adatti a stare nella grotta con Gesù Bambino.
Per primo ruggì il leone: "Io mi piazzerò all'entrata e sbranerò tutti quelli che si avvicinano al bambino!".
L'angelo gli disse: "
Sei troppo violento!".
Si avvicinò la volpe e con aria astuta insinuò: "
Per il Figlio di Dio, io tutte le mattine ruberò il miele più dolce e il latte più profumato!".
L'angelo replicò: "
Sei troppo disonesta!".
Arrivò il pavone: spiegò la sua magnifica ruota: "
Io trasformerò quella povera capanna in una reggia!".
L'angelo gli rispose: "
Sei troppo vanitoso!".
A questo punto l'angelo cominciò a preoccuparsi: temeva di non trovare animali degni di entrare nella grotta accanto al Bambino.
Ad un tratto vide un asino ed un bue che lavoravano, lavoravano, a testa bassa, nel campo di un contadino.
Li chiamò.
"
E voi non avete niente da offrire?".
Il bue, timidamente, rispose: "
Noi potremmo, di tanto in tanto, cacciare le mosche con le nostre code...!".
L'angelo, finalmente, sorrise: "
Voi siete quelli giusti!".
Corse da Maria e le disse: "
Ecco il bue più mite del mondo!".
Chiamò Giuseppe e gli sussurrò: "
Ecco l'asinello più umile della Terra!".
Gesù Bambino, che aveva sentito ogni cosa, aprì gli occhi e li chiamò accanto a sé.
Adesso il primo presepio era al gran completo!


Autore: Pino Pellegrino
Fonte: Il Bollettino Salesiano dicembre 2013
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venerdì 19 dicembre 2014

L'arte di educare: Ascoltare

8 - ASCOLATARE
Da settimane veniamo proponendo le principali mosse dell'arte di educare. Siamo partiti dal "seminare", siamo passati all'"aspettare", al "parlare" al "risplendere"... ed eccoci all' "ascoltare".
Sì, ascoltare i figli perché l'ascolto è una delle più belle facce dell'amore. Perché forse non vi è via migliore per imparare a fare i genitori che quella di "sentire" i figli.




A sentire i figli non si sbaglia mai
A sentire i figli non abbiamo che da guadagnarci.
I figli (specialmente se bambini) ci dicono subito quello che pensano.
Lo dicono chiaro e tondo.
Per questo un loro giudizio, una loro opinione, può valere dieci anni di inchieste.
Si noti che parliamo di 'bambini', non di 'adolescenti'. Le parole degli adolescenti, infatti, possono essere filtrate dal loro punto di vista, talora interessato.
Le parole dei bambini, invece, sono senza filtri. Dietro ad esse ci siamo noi, in presa diretta, c'è il nostro modo di comportarci, il nostro modo di educare.
Subito qualche esempio per provare che non stiamo andando per farfalle.
Walter (nove anni) fotografa il papà: "Se rido, quando c'è la partita, papà scoppia!".
Forte è Monica (otto anni): "Papà, vorrei che quando mangi, non sputi nel piatto!".
Molto acuta è Stefania di sette anni appena: "Per la mamma la cosa più brutta del mondo è strisciare sulla cera dell'anticamera. Per il papà è quando non trova i suoi wafer".
Che cosa vogliamo di più per convincerci che i bambini non sono cretini, non sono babbuini? Minori sì, minorati no!
I piccoli hanno le loro opinioni, i loro giudizi sinceri, severi e veri.
Perché, allora, non ascoltarli?
Ha tutte le ragioni la pedagogista Patricia Holland a ricordarci che "sarebbe bene che i bambini venissero 'ascoltati', tanto quanto sono 'guardati'".
D'accordo al 100%! I bambini li guardiamo troppo (fino a non lasciarli respirare!) e li 'ascoltiamo' poco. Ebbene, questa è l'occasione per ascoltarli.
Leggete ciò che segue!
Una sola nota: non ingurgitare, ma sorseggiare, messaggio dopo messaggio, e 'ruminare'.

A loro la parola
"A te mamma ho una cosa sola da dirti: che gridi troppo!". (Marco, sei anni)
"Quando a sera torna a casa mio papà mi sembra di essere in vacanza". (Maria, sette anni)
"Mia nonna è come un aspirapolvere: ogni cosa che si poggia per due minuti sul tavolo è sparita!". (Loredana, otto anni)
"Appena c'è il telegiornale papà si mette a gridare: 'ladroni!', 'codardi!', 'banditi!'". (Nicola, otto anni)
"Quando ti recito la lezione, mamma, i tuoi occhi sono sfavillanti e si vedono i tuoi denti bianchi". (Lorenzo, otto anni)
"Tu mamma dici sempre le bugie. Esempio: la sera quando vado a letto, mi dici: 'Mi lavo i denti e poi ti faccio compagnia' e poi non vieni mai. Capisco che sei stanca, ma io preferirei che mi dicessi che non ne hai voglia!". (Laura, dieci anni)
"Io mi arrabbio quando tu mamma mi dici che se nascevo femmina, tu mi chiamavi Michela e poi cominci a chiamarmi Michela". (Franco, undici anni)
"Tu mamma sei stata brava a sposare papà!". (Walter, otto anni)
"La mia mamma fa la casalinga e così deve mantenere anche mio papà che lavora soltanto". (Margherita, sette anni)
"A tavola papà sgrida sempre la mamma perché la bistecca è troppo dura. Io ci rimango male perché le grida di papà mi rovinano la digestione". (Alessandro, nove anni)


IN CONCRETO
Non diciamo al figlio: "Lasciami in pace. Sono troppo occupato. Cosa vuoi ancora?".
Sediamoci vicino.
Concentriamo la nostra attenzione tranquilla su di lui.
Non sbirciamo continuamente l'orologio.
Guardiamolo in faccia. Non si ascolta solo con le orecchie, ma con tutto se stessi. Si ascolta con lo sguardo, con gli occhi accoglienti che fanno capire che lui, il figlio, rappresenta per noi il mondo.
Ascoltiamolo con il cuore. Dicono che l'amore sia cieco. Niente di più falso! Certe notizie le dà solo il cuore, non la mente!
Ascoltiamolo con simpatia, anche se non siamo d'accordo sui suoi hobby, su alcune sue stranezze.
Non interrompiamolo tutti i momenti, lasciamo che si sfoghi, si sciolga.
Rispondiamo a tono alle eventuali domande.
Se tale sarà il nostro ascolto, non solo regaleremo al figlio un'ottima medicina psichica (l'ascolto è sempre terapeutico!), ma anche una straordinaria esperienza di incontro umanizzante, cioè educante: incontro indimenticabile e più efficace di mille parole.
Le parole si possono dimenticare, gli abbracci no!
Ascoltare è abbracciare!

I DUE AMICI
Tanti anni fa vivevano in Cina due amici.
Uno era molto bravo a suonare l'arpa, l'altro era molto bravo ad ascoltarlo.
Quando il primo suonava o cantava una canzone che parlava di montagna, il secondo diceva: "Vedo la montagna come se l'avessi davanti!". Quando il primo suonava a proposito di un ruscello, quello che ascoltava diceva, estasiato: "Sento scorrere l'acqua tra le pietre!".
Ma un triste giorno l'amico che ascoltava si ammalò e morì.
Il primo amico tagliò le corde della sua arpa e non suonò mai più!
Esistiamo, veramente, solo se qualcuno ci ascolta!

Autore: Pino Pellegrino
Fonte: Il Bollettino Salesiano ottobre 2013

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mercoledì 17 dicembre 2014

L'ansia di far primeggiare i figli

L'ANSIA DI FAR PRIMEGGIARE I FIGLI
La tendenza a prevenire ed evitare qualsiasi difficoltà ai figli è diventata patologica, tanto che i bambini iperprotetti sono incapaci di affrontare un fallimento


Gli inglesi li chiamano «genitori spazzaneve». Perché «ripuliscono ogni cosa davanti ai loro figli in modo che nulla possa andare loro storto e possa minacciare la loro autostima». Succede a Londra, al collegio femminile di Saint Paul dove la direttrice Clarissa Farr, racconta al Times, ogni giorno si imbatte in madri e padri vittime di «ansia frenetica che fa loro rifiutare l’idea che i propri pargoli possano arrivare secondi». Il che si traduce in «bambini iperprotetti e incapaci di affrontare un fallimento».
Succede anche in Italia. Dove schiere di genitori arrivano da insegnanti e presidi e «giustificano, minacciano, mentono perfino pur di proteggere gli amati figlioletti da una punizione». Succede all’asilo e si va avanti fino alle superiori. Perché «la scuola è il nemico». Riflette Daniela Scocciolini, per oltre quarant’anni insegnante e poi preside del liceo Pasteur di Roma: «La tendenza a prevenire ed evitare qualsiasi difficoltà ai figli è diventata patologica: padri e madri sono del tutto impreparati ad affrontare gli insuccessi dei figli, non ci si vogliono trovare perché non sanno come uscirne».
È come se dicessero: «Non create problemi a mio figlio perché li create a me». E allora, «la soluzione più facile è dire sempre sì, spianare la strada: sono “genitori non genitori” che rinunciano a priori a educare i propri figli cercando di semplificare loro tutto». E la colpa di ogni insuccesso, dice Innocenzo Pessina, ex preside del liceo Berchet di Milano, 43 anni tra scuole di periferia e centro,«è data sempre alla scuola, così si arriva ai ricorsi al Tar per bocciature e brutti voti». Bisogna «insegnare ai ragazzi a confrontarsi con la realtà, aiutarli nelle strade in salita, faticose e impegnative, ma non sostituirsi a loro». I genitori, conferma anche Micaela Ricciardi, preside del liceo Giulio Cesare di Roma, sono «apprensivi e ai figli trasmettono una grande fragilità». L’unica strada è parlarci: «Dico loro di tenere la distanza: siate dei punti di riferimento, ma lasciateli sbagliare, solo così cresceranno responsabilizzati».

Ma c’è anche «l’ansia frenetica» di far primeggiare i figli ad ogni costo, la «ricerca del successo» con l’idea che chi sbaglia sia un fallito: «Crea tanta infelicità tra i ragazzi» dice Silvia Vegetti Finzi, psicoterapeuta che dal blog «Psiche Lei» su Io Donna osserva ogni giorno genitori-figli-scuola:

«Questo dilagare degli adulti sui figli fa solo male: si trasmettono aspettative e stereotipi per indirizzarli dando un’idea di competitività anziché di realizzazione di sé».
E magari alla fine nessuno è contento: «Forse anche per la crisi economica — dice Vegetti Finzi — i genitori sono più ansiosi per il futuro e si sostituiscono ai figli, come se dicessero: “Scelgo io per te” e preparano loro le strade da seguire». E allora? «Lasciateli liberi — conclude la professoressa —, ritiratevi progressivamente lasciando la vita di vostro figlio a lui, inclusi fallimenti ed errori».

Autrice: Claudia Voltattorni
Fonte: www.corriere.it

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venerdì 12 dicembre 2014

L'arte di educare: Castigare

7 - CASTIGARE

Intanto sia subito chiaro: castigare non è il verbo più importante dell'arte di educare.
Più importanti sono altri verbi, come, ad esempio, parlare, amare, risplendere. Questi sono i tre verbi portanti dell'educazione.
Parlare perché educare è far succedere fatti interiori, educare è convincere. Amare perché la nostra influenza arriva solo fin dove arriva il nostro amore. Risplendere perché educare non è salire in cattedra, ma è tracciare un sentiero: è mostrare, è risplendere: è essere ciò che si vuole trasmettere.
Tutto questo è vero, però anche il verbo castigare deve occupare un posto di tutto rispetto nell'arte di educare.



Il castigo è legittimo per più d'una ragione. È legittimo perché avverte che non tutto è lecito, non tutto è permesso. Non è lecito picchiare un compagno, non è lecito rubare la roba agli altri, non è lecito sradicare i fiori del giardino, attraversare di corsa le strade... Chi infrange tali regole, deve accorgersene! Il castigo serve, appunto, a questo.
Lasciar correre sarebbe uno sbaglio da cartellino rosso. Un bambino abituato alla totale impunità è un candidato alla prepotenza, alla sopraffazione!
Il castigo è legittimo perché, soprattutto i piccoli, hanno bisogno di sentire che i genitori hanno la situazione in mano: ciò li aiuta a crescere più sicuri. Il castigo dimostra, appunto, che c'è qualcuno che sa come ci si deve comportare: ciò dà tranquillità al bambino.
Il castigo è legittimo perché stimola la volontà. Le punizioni sono sempre spiacevoli, sia per chi le dà sia per chi le riceve. Ebbene, ciò che è spiacevole rafforza la volontà. Servizio quanto mai opportuno per i nostri ragazzi così devitalizzati da avere, ormai, la grinta del pesce bollito o della mozzarella!
Finalmente, il castigo è legittimo perché sovente è la via più immediata e sicura per evitare spiacevoli conseguenze. Il bambino si sta sporgendo dal davanzale? Mette le dita nella presa della corrente? Qui un castigo immediato è quel che ci vuole. Lancia pietre a vanvera? Gli blocchiamo il braccio! Tira calci ai compagni di gioco? Lo facciamo uscire immediatamente dal campo.
La mappa dei castighi
Insomma, la presenza del castigo nell'educazione è più che legittima. Così legittima che nessun pedagogista ne ha mai messo in dubbio la validità! Semmai si è discusso sui tipi di castighi di cui possiamo disporre e sul modo di gestire la punizione. Lo spazio a disposizione ci obbliga a fermarci quasi esclusivamente sulla mappa dei castighi.
Dunque abbiamo i castighi corporali.
Sberle, ceffoni, bacchettate... Sono castighi da bandire, da non usare mai, sia perché proibiti dalla legge, sia perché hanno pesanti conseguenze negative su chi li subisce: provocano risentimento, umiliazioni, scuotono il mondo emotivo del figlio. Alla larga, dunque, dai maltrattamenti fisici! Formano catene di violenti. Chi è stato picchiato da piccolo, sarà portato a rifarsi da grande su altri.
Un secondo tipo di castigo è l'ironia, il sarcasmo, la presa in giro. "Oh, eccolo il signorino con le mani di pastafrolla. Dovremo starti accanto dal pannolino al pannolone!". Tra tutti, il castigo dell'ironia è il più dannoso: ferisce l'autostima che è una forza fondamentale della crescita.
Terzo tipo di castigo: la privazione di comodi e piaceri. "Non ti sei comportato bene: oggi niente patatine!". "Hai bisticciato con la sorella: questa sera niente televisione!"...
Questo è un castigo che si può sfruttare: avverte del male fatto e richiede un qualche sacrificio.
Quarto tipo di castigo: il castigo morale. Consiste nel mostrarsi tristi, dispiaciuti del male fatto.
È castigo morale non parlare con il bambino per un certo tempo: "Hai detto tante bugie non ho più voglia di parlare con te!". È castigo morale dimostrarsi di malumore. È castigo morale evitare tutti i diminutivi. Il castigo morale è castigo ' nobile': non sporca le mani, non urla.
Il castigo morale generalmente funziona, specialmente con il piccolo. A tale tipo di castigo vanno tutte le nostre preferenze.


E SE VI SCAPPA LA MANO?
"Se una volta vi è 'scappata la mano', non angosciatevi, non fatene una tragedia.
Capita, capita a tutti, anche a me, lo confesso pubblicamente, è capitato.
L'importante è che non diventi un 'metodo educativo' e tanto meno un'abitudine.
Ai bambini più piccoli basterà aggiungere un pò di affetto e sarete immediatamente perdonati.
E, per quel che riguarda i più grandicelli, non pensate che sia vietato chiedere scusa e spiegare il motivo di quello 'scatto'. Non perderete la faccia, anzi acquisterete maggior rispetto perché lui o lei si sentirà più rispettato". (Riccardo Renzi educatore)

UN CASTIGO INDOVINATO
Marco, un ragazzo di dodici anni, con genitori in lotta continua, un mattino uccide a calci e pugni un gattino davanti ai compagni di gioco nel cortile del condominio.
Il giudice dei minori decide di punirlo perché impari a rispettare gli animali.
Per sei mesi Marco dovrà occuparsi di un gattile, il ricovero dei gatti randagi.
Dovrà lavare le gambe e le orecchie ai gatti, dovrà tenere in ordine le loro cuccette e, prima di tornare a casa alla sera, dovrà dare "almeno due carezze ad ogni animale".
La punizione funziona a meraviglia!
La responsabile del gattile racconta: "All'inizio il ragazzo viveva l'incarico come una imposizione assurda. Poi, poco per volta, le carezze obbligatorie sono divenute spontanee. Alla fine tra il piccolo maltrattatore ed i gatti si è creato un feeling insospettato... Ora Marco ha un cane, e lo adora".
Il fatto, avvenuto nel gennaio 2006, è un magnifico esempio di castigo intelligente che raggiunge il suo scopo: non condannare, non umiliare, ma educare.

UN CASTIGO SBAGLIATO
Un mattino il maestro corregge pubblicamente i temi. Quando è la volta del lavoro di Lucia, si rivolge all'alunna, un pò grassottella e scandisce: "Adesso capisco perché sei così cicciottella: mangi tutto, persino gli accenti, le virgole, i punti!".
I compagni ridono divertiti, Lucia si sente fortemente ferita 'dentro'.
Ecco un castigo da disapprovare senza 'se' e senza 'ma'.
Perché colpisce una forza fondamentale della crescita: l'autostima.
Perché dimentica una verità: i piccoli possono avere sofferenze grandi.

CASTIGHIAMO MOTIVANDO
Il castigo, da solo, non risolve nulla. Ha efficacia pedagogica solo se motivato e capito. Con i "Qui comando io!" ed i "È così perché è così!", si formano terrorizzati, non educati!
Il figlio, sia pure piccolissimo, deve venire a conoscere le ragioni del castigo. Solo così viene illuminato e può capire il perché del suo comportamento non buono.
"Non hai avuto voglia di raccogliere la carta che hai gettato per terra, così io non ho voglia di prenderti in braccio!", "Hai aspettato troppo tempo prima di metterti a fare il compito, anch'io aspetto a darti la merenda, a preparare la cena...".
No, non sono ricatti, ma argomenti minimi su misura di bambino e di fanciullo. Argomenti che fanno intuire al piccolo che il castigo non dipende dal nostro umore o dalla nostra forza, ma dalla ragione. È chiaro che in età preadolescenziale ed adolescenziale, le motivazioni dovranno essere più razionali e profonde. La droga, ad esempio, è punibile perché drogarsi è rottamarsi, è autodistruggersi...

Autore: Pino Pellegrino

Fonte: Il Bollettino Salesiano settembre 2013
 
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mercoledì 10 dicembre 2014

Ti voglio bene, mi voglio bene

Ti voglio bene...mi voglio bene
Penseri di una ragazza che lotta per uscire dall'anoressia


Oggi tanto per cambiare ho riflettuto, io ho il difetto di riflettere troppo...
In conclusione, devo ammettere che ho passato un periodo abbastanza lungo in cui non riuscivo nemmeno più a dire" ti voglio bene" per molteplici motivi.
Avevo paura che il mio affetto non fosse ricambiato, oppure di apparire ridicola. Avevo tanta paura di vivere a pieno le emozioni, belle o brutte che erano; ero tipo un muro possiamo dire, sul quale le emozioni rimbalzavano e io negavo che ci fossero , ma paradossalmente andavo alla ricerca di affetto e amore, avevo bisogno ogni giorno di sentirmi dire "ti voglio bene", ero alla ricerca di continue attenzioni, anche perché io non ho ancora imparato a volermi bene, quindi era una rassicurazione del fatto che io ero qualcuno.
Non riuscivo neppure a abbracciare veramente una persona: mi ricordo che, quando venivo abbracciata, mi si diceva che sembravo un tronco di un albero, proprio perché mi rifiutavo di vivere le emozioni....
Adesso qualcosa é cambiato, accetto di vivere tutte le emozioni che una persona è portata a vivere, dalla rabbia, alla affetto alla serenità alla sconfitta.... riesco a dire" ti voglio bene "alle altre persone senza sentirmi inadeguata e riesco a dimostrare il mio affetto .
Adesso dovrei imparare a dire "mi voglio bene" , ecco il tasto dolente . Da quando ho iniziato il percorso di guarigione, la mia famiglia mi fa notare che sono circondata da persone che mi vogliono bene, che ci tengono a me e io ne sono consapevole, ma se io sono la prima a non volermi bene come faccio? Se continuo a non accettarmi per quello che sono, se continuo a trovare i difetti e non i miei pregi, se continuo a essere ostinata e pretendere il massimo da me stessa in tutte le cose che faccio provocandomi stress e ansia, come faccio a volermi bene ?
Devo imparare a volermi bene , questo è il punto da cui partire. Il problema è trovare la strategia, o meglio la strada per imparare a apprezzarmi per quello che sono, accettare che ho dei limiti, riconoscere anche i miei difetti senza cadere nella crisi più totale.
Quindi in poche parole l 'obiettivo è: volermi bene.


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venerdì 5 dicembre 2014

L'arte di educare: RISPLENDERE

6 - RISPLENDERE

L'arte di educare non è per gente pigra!
Impiantare un uomo nuovo richiede un insieme di mosse magnifiche, ma impegnative! Le stiamo snocciolando, di settimana in settimana. Ormai siamo alla sesta: risplendere!


 
'Risplendere', sì, perché educare non è salire in cattedra, ma è tracciare un sentiero.
Educare è essere ciò che si vuole trasmettere!
Insomma, educare è risplendere!
Aveva ragione lo scrittore Ippolito Nievo (1831-1861) a dire che "La parola è suono, l'esempio è tuono".
L'esempio ha una valenza pedagogica straordinaria almeno per quattro ragioni.
1. Intanto perché i figli imparano molto di più spiandoci che ascoltandoci. I genitori forse non se ne accorgono neppure, intanto i figli fotografano e registrano: "Vorrei avere la tua buona volontà di lavorare, mamma, ma non vorrei assomigliare a te per la tua nervosità" (Simona, nove anni).
"Papà vorrei che quando mangi, non sputi nel piatto" (Marco, otto anni).
"Bisticciano sempre, ma sono innamorati, difatti a tavola papà dice sempre alla mamma: 'versami il vino, così è più buono'" (Anna Lisa, dieci anni).
2. L'esempio ha valenza pedagogica, poi, perché ciò che vien visto compiere dagli altri è un invito ad essere imitato, è un eccitante per l'azione.
I ricercatori ci dicono che quando, ad esempio, vediamo una persona muovere un braccio, camminare, saltare... nel nostro cervello vengono, istintivamente, messi in moto gruppi di cellule (i mirror neurons: i 'neuroni specchio') che spingono a ripetere ciò che si è visto.
3. La terza ragione della forza pedagogica dell'esempio sta in quella verità che i bravi insegnanti conoscono bene: "Se sento, dimentico. Se vedo, ricordo. Se faccio capisco".
"Se vedo, ricordo". Dentro ognuno di noi sono memorizzati mille gesti dei nostri genitori. È bastato vedere il loro comportamento, per non poterli più dimenticare.
L'attrice Monica Vitti confessa: "Il rapporto con mia madre è stato determinante. A lei devo tutta la mia forza e il mio coraggio, la serietà e il rigore che ho sempre applicato nel mio lavoro".
A sua volta Enzo Biagi confida: "Di mio padre ricordo la grandissima generosità, la sua apertura e la sua disponibilità verso tutti. Non è mai passato un Natale, e il nostro era un Natale modesto, senza che alla nostra tavola sedesse qualcuno che se la passava peggio di noi... Non è mai arrivato in ritardo allo stabilimento. E io ho imparato che bisogna fare ogni giorno la propria parte".
Anche il papa Paolo VI ha i suoi ricordi: "A mio padre devo gli esempi di coraggio. A mia madre devo il senso del raccoglimento, della vita interiore, della meditazione".
Le testimonianze riportate ci lanciano la domanda più seria tra tutte: "I figli ci 'guardano'. Che cosa vedono?".
4. Finalmente l'esempio è decisivo perché è proprio l'esempio a dare serietà alle parole.
Si può dubitare di quello che uno dice, ma si crede a quello che uno fa.
A questo punto è facile concludere: educare è non offendere mai gli occhi di nessuno!
Il grande scrittore russo Feodor Dostoevskij (1821-1881) ha lasciato un messaggio pedagogico straordinario: "Io mi sento responsabile non appena uno posa il suo sguardo su di me".
Magnifico!
Beati i figli che hanno più esempi che rimproveri!
Beati i figli che hanno genitori che prima di parlare chiedono il permesso all'esempio!
Beati i figli che hanno genitori le cui parole d'oro non sono seguite da fatti di piombo!

PRENDO NOTA
L'educazione inizia dagli occhi, non dalle orecchie.
Oggi i ragazzi ascoltano con gli occhi.
Roberto Benigni, alludendo alla sua esperienza con Federico Fellini, dice: "Quando si sta sotto una quercia, forse rimane in mano qualche ghianda".
I fatti contano più delle parole. La rosa avrebbe lo stesso profumo, anche se si chiamasse in un altro modo.
Per imporsi non serve la costrizione, ma l'ammirazione.
Spesso si raddrizzano gli altri semplicemente camminando diritti.
L'educazione più che una tecnica è una respirazione. Se i figli vivono in un'atmosfera elettrica, diventano elettrici...
Chi parla di dieta con la bocca piena, si auto esclude in partenza.
Quando nel deserto non vi sono le stelle e la notte è buia come la pece, restano le orme. Gli esempi sono le orme!
Quattro proverbi per terminare: "Come canta l'abate, così risponde il frate". "La ciliegia verde matura guardando la ciliegia rossa" (Palestina). "Educatori storti, non avranno mai prodotti dritti" (Olanda). "Se la pernice prende il volo, il piccolo non sta a terra" (Africa).


IL MUSICISTA
C'era una volta un musicista che suonava da vero artista uno strumento.
La musica rapiva la gente a tal punto che si metteva a danzare.
Per caso un sordo, che non sapeva nulla della musica, passò di là e, vedendo tutta quella gente che ballava con entusiasmo, si mise, lui pure, a danzare!
La vista persuade più dell'udito.

LA PIETRA MILIARE
La pedagogia è stata stampata su carta milioni di volte, in milioni di copie. La trovi in tutte le lingue. Eppure l'umanità è ancora ferma. Che cosa aspetta? Aspetta testimoni in carne ed ossa, uomini di fatti e non di fiato! Poi si muoverà.
L'educazione non ama essere raccontata. Vuole essere vissuta: allora si diffonderà da sé.

GANDHI E LA RAGAZZA GOLOSA
Una volta una madre preoccupata per la figlia che aveva preso la brutta abitudine di abbuffarsi di dolci, si recò da Gandhi.
Lo scongiurò: "Per favore, Mahatma ('grande anima') parla tu con mia figlia in modo da persuaderla a smetterla con questo vizio!".
Gandhi rimase un attimo in silenzio un po’ imbarazzato, poi disse: "Riporta qui tua figlia tra tre settimane, allora parlerò con lei, non prima!".
La donna se ne andò perplessa, ma senza replicare.
Tornò, come le era stato proposto, tre settimane dopo, rimorchiandosi dietro la figlia, golosa insaziabile.
Stavolta Gandhi prese in disparte la figlia e le parlò dolcemente con parole semplici e assai persuasive. Le prospettò gli effetti dannosi che possono causare i troppi dolci. Quindi le raccomandò una maggiore sobrietà.
La madre, allora, dopo averlo ringraziato, nell'accomiatarsi, gli domandò: "Toglimi una curiosità, Mahatma: mi piacerebbe sapere perché non hai detto queste cose a mia figlia tre settimane fa...".
Gandhi tranquillamente rispose: "Perché tre settimane fa il vizio di mangiare dolci l'avevo anch'io!".

Prima di parlare occorre chiedere il permesso all'esempio!

Autore: Pino Pellegrino

Fonte: Il Bollettino Salesiano luglio 2013

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mercoledì 3 dicembre 2014

Il pudore di dire: Ti voglio bene

TI VOGLIO BENE
 
 
ll sentimento di pudore rappresenta il legittimo desiderio di nascondere qualcosa a scopo protettivo: del corpo, della sessualità, dello spirito o dei principi. E’ collegato ad un senso di riserbo personale, ad un atteggiamento discreto e riservato dell’animo e anche al rispetto verso un principio a cui non si può derogare (Sebastiani, 2013), e come tutti i sentimenti auto-protettivi svolge una fondamentale funzione nelle relazioni sociali, sia in quelle superficiali che in quelle intime. Tuttavia, in alcune situazioni, rischia di essere troppo forte ed eccessivo, e a volte inibisce l’espressione di sentimenti di affetto che potrebbe essere importante dichiarare.

Proviamo a fare un semplice esercizio: domandiamoci quali sono le persone alle quali vogliamo molto bene, e domandiamoci anche da quanto tempo non glielo diciamo, se gliel’abbiamo mai detto. Come sempre per gli esercizi che propongo, conviene farlo per iscritto, rubando dieci minuti di tempo al nostro abituale routinario agire rimpinzato di impegni, necessari o pretestuosi che siano. Probabilmente, scriveremo una decina di nomi, incluso qualche parente stretto, qualche amico, magari un mentore, il o la partner romantica. Poi, vediamo cosa viene fuori sulla questione tempo: da quanto tempo non glielo diciamo. E proviamo a immaginare di dirglielo. E’ naturale che il pudore nel raccontare i propri sentimenti protegga da alcuni rischi: 1) il sospetto, nell’altro, che ci sia un interesse materiale dietro; 2) l’abuso di dichiarazioni sentimentali sdolcinate, che farebbero perdere importanza alla frase “ti voglio bene” o nel caso del partner “ti amo”, rendendola una commerciale sciocchezza se troppo ripetuta; 3) la legittima vergogna di mostrare i propri sentimenti forti e delicati; 4) il timore di essere presi in giro, ridicolizzati, accusati di essere scemi, oppure di ricevere un rinfacciamento inaspettato a sorpresa in risposta (“è perché mi vuoi bene, che hai agito così male verso di me in questa o in quest’altra occasione?”); 5) nelle situazioni romantiche, anche il timore di ricevere in risposta: “Perché mi dici che mi ami, non mi hai forse sposato? Quindi è logico e sottinteso che mi ami”, mentre invece non è né logico né sottinteso per niente!

Quando facciamo una dichiarazione che viola in qualche modo il pudore affettivo (molto diverso da quello corporeo), inoltre, possiamo provare imbarazzo e vergogna, possiamo arrossire o sentire il respiro bloccato per qualche momento. In qualche modo il pudore segnala sempre, in tutte le sue forme, un mettersi a nudo, e rischiare che l’altro utilizzi questo nostro scoprirci per colpirci.

A questo punto, prima di dire davvero “ti voglio bene” a coloro per i quali proviamo questo sentimento, potremmo giocare a disegnare un fumetto-test della situazione (anche se non siamo bravi con la matita), e a scrivere nei fumetti (nostro e dell’Altro Significativo) la nostra dichiarazione di affetto e la possibile risposta dell’altro. E nel caso in cui, nella nostra immaginazione, l’Altro Significativo superasse il test, possiamo forzarci un po’ a dirglielo: tanto, se va bene, saremo contenti (noi e l’Altro); e se va male, avremo solo capito che il pudore dell’Altro è troppo forte per poter accettare il nostro affetto, almeno a parole. Se poi l’Altro ci dimostrasse che non siamo stati invece capaci di mostrarlo con i fatti, allora forse potremmo anche correggere in positivo il nostro comportamento. Gli affetti sono il carburante della nostra vita: nutrirli, svilupparli e imparare a saperli mostrare, ci può aiutare a sentirci più energici e sereni.

Per saperne di più:
-Aquilar F. (2013), a cura di, Parlare per capirsi. Strumenti di psicoterapia cognitiva per una comunicazione funzionale, Franco Angeli, Milano.
-Sebastiani A. (2013), “Pudore” tra lingua, culture e retoriche, Griseldaonline.

Autore: Dott. Francesco Aquilar


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